[CE 2025] Il figlio del lago - Prequel di Zia Astoria
Posted: Fri Aug 15, 2025 4:11 pm
Prequel di "Zia Astoria" di @Almissima
Titolo: Il figlio del lago
San Pietro dei Castagni, aprile 1980
Astoria Pianceroni curava le sue begonie come fossero l’ultima cosa sacra rimasta al mondo. Le dita sfioravano i petali, morbidi come seta e fragili come sogni spezzati. L’aria era fresca, già intrisa dell’odore umido della terra smossa e del calabrone che le ronzò accanto al viso: un ronzio breve, feroce, quasi un avvertimento.
─ Via, stronzetto peloso, ─ sibilò con un gesto stanco della mano.
─ È troppo presto per morire punzecchiata.
Aveva quarant’anni, un’età che a San Pietro dei Castagni sembrava già un’intera vita, compressa in un matrimonio che si trascinava. Ma lei andava avanti, specie adesso che era incinta, con il ventre che appena si intravedeva sotto il vestito leggero.
Tre mesi di verità silenziose, un piccolo battito nascosto dentro di lei. Dodici settimane durante le quali aveva continuato a versare tè alle vedove, a posare fiori freschi sulla tomba della madre, a indossare quel sorriso tagliente che tutti leggevano come arroganza.
Ma era solo disperazione, travestita da sguaiatezza.
Astoria era stanca. Più di quanto volesse ammettere. E anche spaventata, come un gatto davanti a una finestra chiusa.
Negli ultimi mesi, Reginaldo, suo marito, era cambiato. Più silenzioso, ma non più sereno. Passava ore seduto in cortile, a fissare il nulla, le mani sempre in movimento, come in cerca di un pensiero da afferrare. Astoria lo spiava da dietro le tende. Tra loro restavano solo sguardi sfuggenti, frasi mai dette, una tregua provvisoria.
Una mattina, mentre tagliava le estremità secche delle begonie, lui uscì sul terrazzo con una tazzina di caffè.
─ Hai voglia di fare una passeggiata? ─ Chiese lei, senza voltarsi.
─ Non molto.
─ Vieni lo stesso. Devo parlarti di una cosa.
Camminavano lungo la cresta del Monte Castagno, dove l’aria profumava di resina e foglie secche. Il vento portava sussurri di segreti. I ramoscelli scricchiolavano come pensieri spezzati.
─ Devo dirti una cosa, ─ disse Astoria, inspirando a fondo.
─ Anche io, ─ rispose Reginaldo, e lei si bloccò.
─ Ma tu prima, ─ continuò lui, goffo, con quel tremito che aveva solo chi nasconde un uragano dentro. ─ Io non so più chi sei. Ti muovi come se fossi altrove da mesi. E io… io non ci sto più dentro a questa cosa.
─ Quale cosa?
─ Qualunque cosa tu stia per dirmi.
Lei abbassò lo sguardo. Poi lo fissò.
─ Sono incinta.
Reginaldo deglutì. Il mondo per lui divenne enorme. Poi si ritrasse, fino a svanire.
Meditò a lungo. Sussurrò: ─ Di me?
─ Hai sempre detto che non sono una santa. Non come tua sorella Gertrude, che si è chiusa in quel convento a Perugia.
Il silenzio che seguì era così denso che sembrava capace di spaccare le rocce. Poi, come una tempesta improvvisa, arrivarono le urla, gli insulti. Mani che cercavano di colpire, che inseguivano appigli o forse colpe. Lui ansimava, gli occhi fuori dalle orbite, picchiando Astoria alla cieca. Un piede scivolò, la roccia umida lo tradì. Cadde, inghiottito dalla vegetazione sottostante.
Astoria rimase pietrificata in quel momento sospeso. Il cuore che batteva a scatti, le mani graffiate, sporche della resina appiccicosa degli alberi.
Poi, con gesto tremante, si sistemò i capelli, raccolse la sua borsa di pelle e iniziò a scendere lungo il sentiero. A dare l’allarme.
Si stabilì che era stato un incidente. Reginaldo era scivolato sul crinale e si era rotto l’osso del collo. Astoria non pianse al funerale. Non ancora. Lo fece a casa, quando mise l’acqua sul fuoco e scelse la tazza col disegno del limone, quella che teneva per i giorni di pioggia e nebbia.
I giorni seguenti furono un impasto di suoni ovattati e volti in controluce. Le vedove del paese vennero a trovarla; la Gina le portò un dolce e le accarezzò la mano. Il prete parlò di “prova divina”, il maresciallo, pensieroso, fece domande senza volere risposte.
Il tempo si sfilacciava come vecchia stoffa. Astoria si rifugiava nel giardino, le mani nella terra. La sera leggeva una pagina di un libro qualsiasi. Ogni tanto, parlava al bambino che cresceva in lei.
Era cominciato qualche mese prima. Era andata a trovare una sua amica che aveva una casa al lago San Pietro. Reginaldo l’aveva lasciata partire con indifferenza.
Lì aveva conosciuto Gualtiero Marchetti, che tutti chiamavano il Professore, con quella reverenza che nei paesi si riserva a chi sa parlare senza bestemmiare. Ma era davvero un professore: insegnava letteratura a Bologna. Aveva una piccola casa in riva al lago, dove veniva a passare le vacanze. In quel periodo si trovava lì per una villeggiatura “di riflessione”, così l’aveva definita al bar del paese, dopo una burrascosa separazione dalla moglie. Gualtiero aveva i capelli lunghi e grigi raccolti all’indietro con un nastrino nero, una voce calda e mani da pianista. Uno di quegli uomini che sanno guardarti e farti sentire trasparente e, allo stesso tempo, nuda.
Astoria l’aveva notato la prima volta al mercato, intento a scegliere delle ciliegie con la stessa attenzione con cui si valuta una reliquia.
─ Attento, ─ gli aveva detto sottovoce, ─ quelle di sinistra sono sciacquate con l’acqua piovana. Quelle di destra con la saliva della signora che le vende.
Lui aveva riso, divertito. Sottovoce aveva risposto: ─ Mi piacciono entrambe le opzioni. Ma preferirei la tua saliva.
Dopo tre giorni stavano facendo colazione insieme, e dopo una settimana dormivano nella stessa camera, nella sua casa. Gualtiero non amava parlare del suo passato. Diceva che le parole migliori sono quelle scritte e già pubblicate. Parlava del mondo, dell’arte, di come il vero amore sia una parentesi mai chiusa.
Ad Astoria bastava. Nessuna domanda, nessun futuro da pianificare. Solo mattine di caffè lungo, pane caldo, marmellata di prugne, e pomeriggi e notti tra le lenzuola fresche, con il profumo del lago che entrava dalle finestre.
Quando scoprì di essere incinta, Gualtiero era già partito da un pezzo. Poi l’incidente di Reginaldo.
Lei conosceva l’indirizzo di Gualtiero a Bologna. Salì in treno con una cartella piena di esami medici e una frase da dire in faccia:
─ Ti ho scelto come padre.
Lui, con un accenno di sorriso, estrasse un libro dalla sua libreria. Lo sfogliò con cura.
─ Un’edizione rara questa, sai.
─ Hai capito cosa ho detto?
─ Sì. Vedi: sono come te, Astoria.
Parlarono tutto il giorno. Poi andarono a letto.
La proposta di Astoria, davanti al caffè, era semplice: ─ Intestami la casa sul lago. Se lo fai, non ci saranno conseguenze. Non cercherò un cognome per il bambino. Non reclamerò paternità. Ma se non lo fai… potrei pentirmi della mia discrezione.
Gualtiero era troppo intelligente per chiamarla ricattatrice. E forse, dentro di sé, sapeva che lei aveva già fatto abbastanza da sola. Firmò.
In attesa del disbrigo delle pratiche, le diede dei soldi e Astoria si trasferì provvisoriamente sulla riviera ligure. Era libera, non doveva rendere conto a nessuno.
Ma fu proprio in un albergo sul mare, a Loano, che prese la decisione più difficile della sua vita.
Scrisse una lettera. Al fratello Dario, architetto, sposato con Nerina, senza figli:
Caro Dario,
ti scrivo con le mani che tremano e il cuore che va a scatti. Ho bisogno di chiederti qualcosa che non avrei mai immaginato. Sto per avere un figlio. Non cercare spiegazioni ora, non ce n’è una sola. Il padre non può esserci, e io non sono adatta.
So che tu e Nerina non potete averne. So anche che siete due persone che saprebbero amare questo bambino.
Io non sono fatta per crescerlo. Ma voglio che viva, voglio proteggerlo. Se vorrete accoglierlo, vi sarò vicina. Non come madre. Sarò una zia.
Se accettate, venite a Loano…
Un abbraccio.
Astoria
Dario arrivò a Loano con Nerina. Lei indossava un abito premaman troppo largo, a fiori, che le cadeva addosso come un lenzuolo stanco. Nessuno parlò. Si abbracciarono piangendo.
Qualche tempo dopo, in ospedale, Astoria partorì un maschio.
─ Luca, ─ disse Dario con voce commossa. ─ Si chiamerà Luca.
Il giorno delle dimissioni, sola nella stanza, Astoria si chinò sulla culla.
─ Mi dispiace, ─ sussurrò, di non saperti amare come meriti. Ma giuro che ti proteggerò da lontano, finché avrò fiato.
Il neonato starnutì. Lei sorrise, poggiandogli le labbra sulle guance.
─ Già stanco di me? Hai preso da tua madre, allora.
San Pietro dei Castagni accolse il ritorno della famiglia di Dario Pianceroni con un sorriso stiracchiato.
Nerina si chiuse in casa per sei settimane, “debolezza post-parto”, dicevano.
Con la casa sul lago intestata a lei, anche Astoria tornò a San Pietro, alla sua vita di sempre, alle sue conserve, alle sue begonie. Ricami. Messe. Voci che correvano come ombre. Occhi di uomini e donne dietro le persiane che osservavano i suoi strani andirivieni nelle vie del paese.
Passarono gli anni. Dario si arrangiava con lavori a progetto, mentre la sua casa cadeva a pezzi, come i suoi sogni. Luca cresceva sereno, ignaro.
Astoria, che vedeva crepe nei muri e nelle persone, un giorno propose: ─ Vi compro la casa. È piccola e umida. Dario: non hai testa né soldi per sistemarla. Io ho da parte qualcosa. Voi potrete trasferirvi nella casetta del lago per qualche mese, e poi vi aiuto a cercare altro.
Dario, orgoglioso ma stanco, accettò.
Un giorno Astoria andò a trovarli in compagnia di Gualtiero. Lui si era rimesso in sesto ed era venuto per rivedere il lago e la casa, senza sapere che vi avrebbe trovato una famiglia intera.
Astoria lo presentò come un vecchio amico, un professore, ─ ormai in pensione ─ aggiunse bonariamente lui.
Gualtiero restò qualche giorno. Vide Nerina giocare con Luca, Dario prenderlo in braccio, Astoria seguirlo da lontano con lo sguardo lucido. Lui lo guardava con un’ombra lieve sul volto. Quando se ne andò, regalò a Luca una valigetta costosa, di legno, piena di matite, pennarelli e acquarelli. Indugiò di piacere nel vedere la felicità del bambino, e Luca ignorò che quello sconosciuto e la zia Astoria fossero i suoi veri genitori.
E così, pezzo dopo pezzo, Astoria si costruì il proprio regno segreto: due case, conti in ordine, e tutto all’insaputa del paese, che continuava a vederla come “la vedova-zitella un po’ eccentrica che sapeva tutto di tutti.
Il primo investimento arrivò grazie a un cliente: un ingegnere vedovo, affezionato alla sua compagnia e molto, molto generoso.
─ Non sono tipo da regalare fiori, ─ le disse. ─ Ma posso insegnarti qualcosa sui titoli di stato.
Astoria imparò in fretta: BOT, BTP, conti vincolati, e la magia dell’interesse composto, come religione.
Un paio d’anni dopo, il conto saliva oltre le centinaia di migliaia. Nessun vizio. Nessuna distrazione.
Solo Astoria, la sua casa al lago, le sue conserve, le sue begonie e la sua vita spiata attraverso le persiane.
Col tempo, nel paese aumentarono i mormorii. Oltre alla sua disponibilità, ormai un’istituzione, su come potesse vivere in maniera agiata, e per tanti anni, senza un lavoro “normale”. Benvoluta da tutti, dal parroco, dal farmacista, dal maresciallo, da padri di famiglia irreprensibili. Le bigotte mormoravano in gruppo, salvo zittirsi al suo passaggio e fare a gara per salutarla cordialmente. Astoria aveva fatto della sua vita una storia non raccontabile. Una di quelle che si sussurrano, ma mai si scrivono. E lei, da vera maestra della discrezione, non negava mai. Non confermava. Non spiegava. Solo sorrideva.
E profumava di arancia e zenzero.
Quel profumo che piaceva tanto a Luca, suo figlio, che ogni tanto Dario e Nerina le affidavano nella casa al lago. In fondo era giusto che conoscesse sua zia.
Titolo: Il figlio del lago
San Pietro dei Castagni, aprile 1980
Astoria Pianceroni curava le sue begonie come fossero l’ultima cosa sacra rimasta al mondo. Le dita sfioravano i petali, morbidi come seta e fragili come sogni spezzati. L’aria era fresca, già intrisa dell’odore umido della terra smossa e del calabrone che le ronzò accanto al viso: un ronzio breve, feroce, quasi un avvertimento.
─ Via, stronzetto peloso, ─ sibilò con un gesto stanco della mano.
─ È troppo presto per morire punzecchiata.
Aveva quarant’anni, un’età che a San Pietro dei Castagni sembrava già un’intera vita, compressa in un matrimonio che si trascinava. Ma lei andava avanti, specie adesso che era incinta, con il ventre che appena si intravedeva sotto il vestito leggero.
Tre mesi di verità silenziose, un piccolo battito nascosto dentro di lei. Dodici settimane durante le quali aveva continuato a versare tè alle vedove, a posare fiori freschi sulla tomba della madre, a indossare quel sorriso tagliente che tutti leggevano come arroganza.
Ma era solo disperazione, travestita da sguaiatezza.
Astoria era stanca. Più di quanto volesse ammettere. E anche spaventata, come un gatto davanti a una finestra chiusa.
Negli ultimi mesi, Reginaldo, suo marito, era cambiato. Più silenzioso, ma non più sereno. Passava ore seduto in cortile, a fissare il nulla, le mani sempre in movimento, come in cerca di un pensiero da afferrare. Astoria lo spiava da dietro le tende. Tra loro restavano solo sguardi sfuggenti, frasi mai dette, una tregua provvisoria.
Una mattina, mentre tagliava le estremità secche delle begonie, lui uscì sul terrazzo con una tazzina di caffè.
─ Hai voglia di fare una passeggiata? ─ Chiese lei, senza voltarsi.
─ Non molto.
─ Vieni lo stesso. Devo parlarti di una cosa.
Camminavano lungo la cresta del Monte Castagno, dove l’aria profumava di resina e foglie secche. Il vento portava sussurri di segreti. I ramoscelli scricchiolavano come pensieri spezzati.
─ Devo dirti una cosa, ─ disse Astoria, inspirando a fondo.
─ Anche io, ─ rispose Reginaldo, e lei si bloccò.
─ Ma tu prima, ─ continuò lui, goffo, con quel tremito che aveva solo chi nasconde un uragano dentro. ─ Io non so più chi sei. Ti muovi come se fossi altrove da mesi. E io… io non ci sto più dentro a questa cosa.
─ Quale cosa?
─ Qualunque cosa tu stia per dirmi.
Lei abbassò lo sguardo. Poi lo fissò.
─ Sono incinta.
Reginaldo deglutì. Il mondo per lui divenne enorme. Poi si ritrasse, fino a svanire.
Meditò a lungo. Sussurrò: ─ Di me?
─ Hai sempre detto che non sono una santa. Non come tua sorella Gertrude, che si è chiusa in quel convento a Perugia.
Il silenzio che seguì era così denso che sembrava capace di spaccare le rocce. Poi, come una tempesta improvvisa, arrivarono le urla, gli insulti. Mani che cercavano di colpire, che inseguivano appigli o forse colpe. Lui ansimava, gli occhi fuori dalle orbite, picchiando Astoria alla cieca. Un piede scivolò, la roccia umida lo tradì. Cadde, inghiottito dalla vegetazione sottostante.
Astoria rimase pietrificata in quel momento sospeso. Il cuore che batteva a scatti, le mani graffiate, sporche della resina appiccicosa degli alberi.
Poi, con gesto tremante, si sistemò i capelli, raccolse la sua borsa di pelle e iniziò a scendere lungo il sentiero. A dare l’allarme.
Si stabilì che era stato un incidente. Reginaldo era scivolato sul crinale e si era rotto l’osso del collo. Astoria non pianse al funerale. Non ancora. Lo fece a casa, quando mise l’acqua sul fuoco e scelse la tazza col disegno del limone, quella che teneva per i giorni di pioggia e nebbia.
I giorni seguenti furono un impasto di suoni ovattati e volti in controluce. Le vedove del paese vennero a trovarla; la Gina le portò un dolce e le accarezzò la mano. Il prete parlò di “prova divina”, il maresciallo, pensieroso, fece domande senza volere risposte.
Il tempo si sfilacciava come vecchia stoffa. Astoria si rifugiava nel giardino, le mani nella terra. La sera leggeva una pagina di un libro qualsiasi. Ogni tanto, parlava al bambino che cresceva in lei.
Era cominciato qualche mese prima. Era andata a trovare una sua amica che aveva una casa al lago San Pietro. Reginaldo l’aveva lasciata partire con indifferenza.
Lì aveva conosciuto Gualtiero Marchetti, che tutti chiamavano il Professore, con quella reverenza che nei paesi si riserva a chi sa parlare senza bestemmiare. Ma era davvero un professore: insegnava letteratura a Bologna. Aveva una piccola casa in riva al lago, dove veniva a passare le vacanze. In quel periodo si trovava lì per una villeggiatura “di riflessione”, così l’aveva definita al bar del paese, dopo una burrascosa separazione dalla moglie. Gualtiero aveva i capelli lunghi e grigi raccolti all’indietro con un nastrino nero, una voce calda e mani da pianista. Uno di quegli uomini che sanno guardarti e farti sentire trasparente e, allo stesso tempo, nuda.
Astoria l’aveva notato la prima volta al mercato, intento a scegliere delle ciliegie con la stessa attenzione con cui si valuta una reliquia.
─ Attento, ─ gli aveva detto sottovoce, ─ quelle di sinistra sono sciacquate con l’acqua piovana. Quelle di destra con la saliva della signora che le vende.
Lui aveva riso, divertito. Sottovoce aveva risposto: ─ Mi piacciono entrambe le opzioni. Ma preferirei la tua saliva.
Dopo tre giorni stavano facendo colazione insieme, e dopo una settimana dormivano nella stessa camera, nella sua casa. Gualtiero non amava parlare del suo passato. Diceva che le parole migliori sono quelle scritte e già pubblicate. Parlava del mondo, dell’arte, di come il vero amore sia una parentesi mai chiusa.
Ad Astoria bastava. Nessuna domanda, nessun futuro da pianificare. Solo mattine di caffè lungo, pane caldo, marmellata di prugne, e pomeriggi e notti tra le lenzuola fresche, con il profumo del lago che entrava dalle finestre.
Quando scoprì di essere incinta, Gualtiero era già partito da un pezzo. Poi l’incidente di Reginaldo.
Lei conosceva l’indirizzo di Gualtiero a Bologna. Salì in treno con una cartella piena di esami medici e una frase da dire in faccia:
─ Ti ho scelto come padre.
Lui, con un accenno di sorriso, estrasse un libro dalla sua libreria. Lo sfogliò con cura.
─ Un’edizione rara questa, sai.
─ Hai capito cosa ho detto?
─ Sì. Vedi: sono come te, Astoria.
Parlarono tutto il giorno. Poi andarono a letto.
La proposta di Astoria, davanti al caffè, era semplice: ─ Intestami la casa sul lago. Se lo fai, non ci saranno conseguenze. Non cercherò un cognome per il bambino. Non reclamerò paternità. Ma se non lo fai… potrei pentirmi della mia discrezione.
Gualtiero era troppo intelligente per chiamarla ricattatrice. E forse, dentro di sé, sapeva che lei aveva già fatto abbastanza da sola. Firmò.
In attesa del disbrigo delle pratiche, le diede dei soldi e Astoria si trasferì provvisoriamente sulla riviera ligure. Era libera, non doveva rendere conto a nessuno.
Ma fu proprio in un albergo sul mare, a Loano, che prese la decisione più difficile della sua vita.
Scrisse una lettera. Al fratello Dario, architetto, sposato con Nerina, senza figli:
Caro Dario,
ti scrivo con le mani che tremano e il cuore che va a scatti. Ho bisogno di chiederti qualcosa che non avrei mai immaginato. Sto per avere un figlio. Non cercare spiegazioni ora, non ce n’è una sola. Il padre non può esserci, e io non sono adatta.
So che tu e Nerina non potete averne. So anche che siete due persone che saprebbero amare questo bambino.
Io non sono fatta per crescerlo. Ma voglio che viva, voglio proteggerlo. Se vorrete accoglierlo, vi sarò vicina. Non come madre. Sarò una zia.
Se accettate, venite a Loano…
Un abbraccio.
Astoria
Dario arrivò a Loano con Nerina. Lei indossava un abito premaman troppo largo, a fiori, che le cadeva addosso come un lenzuolo stanco. Nessuno parlò. Si abbracciarono piangendo.
Qualche tempo dopo, in ospedale, Astoria partorì un maschio.
─ Luca, ─ disse Dario con voce commossa. ─ Si chiamerà Luca.
Il giorno delle dimissioni, sola nella stanza, Astoria si chinò sulla culla.
─ Mi dispiace, ─ sussurrò, di non saperti amare come meriti. Ma giuro che ti proteggerò da lontano, finché avrò fiato.
Il neonato starnutì. Lei sorrise, poggiandogli le labbra sulle guance.
─ Già stanco di me? Hai preso da tua madre, allora.
San Pietro dei Castagni accolse il ritorno della famiglia di Dario Pianceroni con un sorriso stiracchiato.
Nerina si chiuse in casa per sei settimane, “debolezza post-parto”, dicevano.
Con la casa sul lago intestata a lei, anche Astoria tornò a San Pietro, alla sua vita di sempre, alle sue conserve, alle sue begonie. Ricami. Messe. Voci che correvano come ombre. Occhi di uomini e donne dietro le persiane che osservavano i suoi strani andirivieni nelle vie del paese.
Passarono gli anni. Dario si arrangiava con lavori a progetto, mentre la sua casa cadeva a pezzi, come i suoi sogni. Luca cresceva sereno, ignaro.
Astoria, che vedeva crepe nei muri e nelle persone, un giorno propose: ─ Vi compro la casa. È piccola e umida. Dario: non hai testa né soldi per sistemarla. Io ho da parte qualcosa. Voi potrete trasferirvi nella casetta del lago per qualche mese, e poi vi aiuto a cercare altro.
Dario, orgoglioso ma stanco, accettò.
Un giorno Astoria andò a trovarli in compagnia di Gualtiero. Lui si era rimesso in sesto ed era venuto per rivedere il lago e la casa, senza sapere che vi avrebbe trovato una famiglia intera.
Astoria lo presentò come un vecchio amico, un professore, ─ ormai in pensione ─ aggiunse bonariamente lui.
Gualtiero restò qualche giorno. Vide Nerina giocare con Luca, Dario prenderlo in braccio, Astoria seguirlo da lontano con lo sguardo lucido. Lui lo guardava con un’ombra lieve sul volto. Quando se ne andò, regalò a Luca una valigetta costosa, di legno, piena di matite, pennarelli e acquarelli. Indugiò di piacere nel vedere la felicità del bambino, e Luca ignorò che quello sconosciuto e la zia Astoria fossero i suoi veri genitori.
E così, pezzo dopo pezzo, Astoria si costruì il proprio regno segreto: due case, conti in ordine, e tutto all’insaputa del paese, che continuava a vederla come “la vedova-zitella un po’ eccentrica che sapeva tutto di tutti.
Il primo investimento arrivò grazie a un cliente: un ingegnere vedovo, affezionato alla sua compagnia e molto, molto generoso.
─ Non sono tipo da regalare fiori, ─ le disse. ─ Ma posso insegnarti qualcosa sui titoli di stato.
Astoria imparò in fretta: BOT, BTP, conti vincolati, e la magia dell’interesse composto, come religione.
Un paio d’anni dopo, il conto saliva oltre le centinaia di migliaia. Nessun vizio. Nessuna distrazione.
Solo Astoria, la sua casa al lago, le sue conserve, le sue begonie e la sua vita spiata attraverso le persiane.
Col tempo, nel paese aumentarono i mormorii. Oltre alla sua disponibilità, ormai un’istituzione, su come potesse vivere in maniera agiata, e per tanti anni, senza un lavoro “normale”. Benvoluta da tutti, dal parroco, dal farmacista, dal maresciallo, da padri di famiglia irreprensibili. Le bigotte mormoravano in gruppo, salvo zittirsi al suo passaggio e fare a gara per salutarla cordialmente. Astoria aveva fatto della sua vita una storia non raccontabile. Una di quelle che si sussurrano, ma mai si scrivono. E lei, da vera maestra della discrezione, non negava mai. Non confermava. Non spiegava. Solo sorrideva.
E profumava di arancia e zenzero.
Quel profumo che piaceva tanto a Luca, suo figlio, che ogni tanto Dario e Nerina le affidavano nella casa al lago. In fondo era giusto che conoscesse sua zia.