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Re: [CN23] La luce di Monet

Grazie @Poeta Zaza per i tuoi consigli e per le belle parole.  :love3:

Grazie @Albascura sono contenta che ti sia piaciuto questo racconto storico. È vero, Monet affittò il camerino al secondo piano del negozio Au Caprice nella piazza antistante la cattedrale di Rouen per dipingere una buona parte della serie “cattedrali”. Abbozzava le opere e si faceva rifornire di continuo delle tele da Suzanne. I quadri li ultimava nel proprio atelier a Giverny. :flower:

Grazie @Alberto Tosciri per la tua analisi e la sensibilità con cui hai colto il succo “natalizio” del racconto. Sono un’appassionata di storia dell’arte (pittura in particolare) e sono rimasta “impressionata” dai dipinti di Monet e dal suo desiderio di catturare la luce. La luce è perfetta espressione del concetto divino.
L’ossessione del pittore attiva una scintilla nella mente al negoziante che, pur in tarda età, viene illuminato e salvato da quella luce.  :grazie:

[CN23] La luce di Monet

Traccia 3: "La coltre di nebbia"

genere del racconto: storico.



Mia moglie non capisce perché faccio quello che faccio, ma non posso biasimarla per questo: mi sarei chiesto anch’io se fosse impazzita vedendola uscire il mattino di Natale, prima dell’alba, con la scusa di controllare chi sa cosa al negozio. Chiudo la porta incurante delle sue proteste assonnate e mi tuffo nel deserto cittadino.
Tiro su il bavero del cappotto, detesto i guanti che mi fanno perdere la sensibilità, ma non potrei farne a meno stamani.
Solo ieri la piazza era una ghirlanda multicolore di dialetti e vestiti; un vociare indistinto infestava l’aria coprendo perfino i rintocchi delle campane.
Le dame che vengono dalle campagne vicine le riconosco subito: indossano cappellini démodé e gli abiti della festa odorano di chiuso e di lavanda. A ben guardarli mostrano i segni dei recenti lavori di sartoria necessari per adattarli alle nuove misure delle loro proprietarie.
Tengono i loro figlioletti per mano. I bambini si tramandano i calzoni da generazioni, i più piccoli quasi calpestano l’orlo troppo lungo, i più grandi ne indossano di troppo corti tanto da mostrare le spesse calze di lana. Le ragazzine trascinano le madri davanti alla vetrina del mio negozio: l’insegna “Au Caprice” le attira come carta moschicida. A volte vorrei invitarle a entrare, c’è sempre qualche abito degli anni passati che non si venderebbe mai alle clienti abituali, ma mia moglie detesta le donne di campagna: dice che se acquistassero da noi, rovinerebbero i nostri affari, che le vere signore di città vogliono l’esclusiva. E io mi lascio convincere…
Cammino a testa bassa, il cappello calato fino alle sopracciglia; riesco a malapena a vedere una scarpa mentre l’altra svanisce nella nebbia man mano che procedo.
Raggiunto il portone, prendo la chiave dalla tasca. Tre giri e la serratura scatta docile. Gli sbuffi caldi del mio alito sostano qualche istante nell’aria prima di dissolversi.
Sarei tentato di accendere una candela, ma non voglio farlo, il maestro non lo permetterebbe mai. Salgo le scale, raggiungo la stanzetta accanto al camerino e sposto la tenda: lo specchio a figura intera riflette un’ombra scura, dai contorni indefiniti, se non sapessi di essere proprio io, mi spaventerei a morte vedendola.
La condensa appanna i vetri, cerco un panno per rimuoverla. Una fitta coltre di nebbia avvolge i palazzi e la guglia del campanile della cattedrale si distingue a malapena. Quanto vorrei che lui fosse qui adesso. Saprebbe catturare l’attimo e imprimerlo nella tela come nessun altro.
Non avevo mai contrariato mia moglie, ma sono felice di averlo farlo quella volta.

L’uomo entrò in negozio scuotendo il mantello coperto di cristalli di neve. Lei mi lanciò un’occhiata di fuoco, io sapevo cosa avrei dovuto fare, ma lo sconosciuto non mi diede il tempo di reagire. Mi chiese di salire al piano di sopra per osservare la cattedrale dall’alto.
La richiesta era alquanto bizzarra, temevo si trattasse di un ricercato e che nascondesse, magari, un pugnale sotto la cappa. Mi avvicinai con circospezione e, abbassando la voce più che potevo, gli suggerii di uscire, ma quello mi fece scivolare dieci franchi nella tasca della giacca così mi sentii autorizzato ad accontentarlo.
Tesi l’orecchio per assicurarmi che non ci fosse qualche cliente nel camerino di prova e lo accompagnai di sopra.
Prima che potessi impedirglielo, lui aprì la finestra. Una folata gelida mi fece lacrimare gli occhi, mentre quello vagava con lo sguardo dalle guglie al portone. Sembrava inseguisse un raggio di luce che proprio in quel momento attraversava la facciata dividendola in due fasce: una scura e profonda, l’altra chiara e lucente.
Non riuscivo a dissuaderlo. Voleva affittare la stanza a ogni costo e io ero fin troppo consapevole delle discussioni infinite che avrei dovuto sostenere con la mia Geneviève. Fu allora che mi disse chi era: Claude Monet. Dalla finestra del mio negozio avrebbe potuto dipingere al meglio la cattedrale di Rouen.
Mi tranquillizzò dicendo che non avrebbe fatto rumore né molestato in alcun modo le nostre clienti.
Non abbiamo ancora rimosso il séparé di tela nera col quale dividemmo in due il locale.

Se solo avessi un briciolo della sua abilità, proverei anch’io stamani a dipingere la facciata della nostra cattedrale. Monet non voleva che lo disturbassi mentre lavorava, ma sono rimasto spesso a osservarlo dal pianerottolo senza entrare. Ho imparato a osservare quell’edificio in modo diverso.
Eppure l’avevo sempre avuto sotto gli occhi, ma non l’avevo mai visto davvero.

Da vicino i suoi quadri sembravano solo una poltiglia indistinta di colori. Per rendere le pennellate più spesse, lui premeva il tubetto sulla carta e lasciava che l’olio contenuto nella tinta fosse assorbito prima di stendere la pittura sulla tela. Per apprezzare il risultato bisognava allontanarsi dal dipinto: allora sembrava che la cattedrale prendesse vita con mille sfumature vibranti.
Un giorno Monet mi presentò Suzanne Hoschédé, la figlia della sua seconda moglie. Non sono riuscito mai a contare quanti viaggi fece fare a quella cara ragazza in quel periodo. Aveva sempre bisogno di nuove tele, dipingeva dall’alba al tramonto senza concedersi un attimo di pausa. Ogni volta che la luce variava per effetto del clima o dell’ora iniziava un nuovo quadro. Nei dipinti, la facciata della cattedrale mostrava diversi dettagli. Capitava che lavorasse anche su dieci opere alla volta. Non sembrava mai soddisfatto del risultato. Inoltre mi incuriosiva sempre più che dipingesse ogni volta lo stesso soggetto senza mai portarlo a compimento.
Un giorno gli chiesi perché, ma lui mi guardò di traverso. Scattò in piedi e rispose risentito che chi che diceva di aver finito una tela era solo un tremendo orgoglioso. Lui spesso brancolava perché più andava avanti col lavoro e più si rendeva conto di non riuscire a rendere appieno il suo sentire. Mi disse che cercava l’istantaneità, l’involucro, la stessa luce diffusa ovunque. Per questo avanzava con fatica una pennellata dopo l’altra fino a sentirsi stremato.

Il giorno avanza e già fa diradare la nebbia, i rintocchi delle campane a festa richiamano i primi fedeli, le guglie scintillano investite dai primi timidi raggi di sole.
Qualcuno dà una rapida occhiata verso la finestra. Le tende aperte in un giorno festivo. Per fare soldi vuoi vedere che aprirà anche per Natale? sembrano dirmi quegli sguardi accigliati.
Prendo l’orologio d’oro dal panciotto. Geneviève sarà preoccupata.
Un lieve bussare alla porta mi distoglie dai pensieri. Mi alzo in punta di piedi per riuscire a vedere chi sia, ma non ci riesco.
Il bussare si fa più intenso. Quando mi decido ad aprire la porta, il cuore mi perde un battito.
«Suzanne, che ci fate qui? Entrate o vi buscherete un malanno.»
«Buon Natale, monsieur Levi.»
«Come sapevate che ero al negozio?»
«È stata vostra moglie a dirmelo.»
Suzanne si sfila i guanti e mi porge un pacco incartato con una carta anonima.
«Da parte di Claude. Ci teneva che lo aveste.»
Sento il rossore colorarmi il volto.
L’involucro lascia poco all’immaginazione. Cerco di scartarlo con delicatezza, procedendo piano. Una busta plana dolcemente fino ai miei piedi. Mi chino a raccoglierla, l’apro con mani tremanti.
Amico mio, in questa stagione il sole cala così presto che non riesco a seguirlo e sono diventato così lento nel lavoro che mi esaspero. Ma lo sai che mi disgustano le cose semplici, quelle che si ottengono facilmente al primo tentativo…

«Fate con calma, monsieur. Io devo rientrare a Giverny. Non posso far attendere oltre la carrozza.»

Sono solo un mercante abituato a far quadrare i conti senza affannarmi troppo. Mi basta uno sguardo per capire quanti franchi possono spendere le persone, mi basta tacere per non creare dissapori in famiglia, aprire il mio negozio al mattino e chiuderlo la sera. Solo che da quando ho conosciuto il maestro, non sono più sicuro che questo sia abbastanza.
Non sono certo un’artista, ma quel modo speciale di osservare le cose, in qualche modo mi è entrato nella testa.
Il vecchio me non si sarebbe mai spinto ad abbracciarla, ma Monet mi ha insegnato che ogni ora del giorno ha il proprio colore. E nel mio tramonto non c’è spazio per i rimpianti.
La stringo forte prima di lasciarla partire.
«Buon Natale, cara. Abbraccia tuo padre da parte mia.»
Appendo il dipinto alla parete, conto venti passi e mi volto. È vero: la luce riflessa dalla facciata della cattedrale non è mai la stessa.

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