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Re: [CP13] Istanza

bestseller2020 ha scritto: mer nov 29, 2023 7:11 pmSecondo me, andrebbe un bel arcobaleno dopo che il cielo ha pianto e l'aria prende a rasserenarsi, assieme all'anima
Andrebbe benissimo!  :D grazie, Best.

E grazie anche a @confusa per le sue considerazioni.

Re: [CP13] Istanza

Poeta Zaza ha scritto: gio nov 30, 2023 8:13 pmLa mia opinione sull'argomento è che, scegliendo testi troppo lunghi, si snaturi lo spirito di questa tecnica poetica.
(...)
Secondo me, avrebbe più séguito con testi più ridotti.  
Zaza, ora ho capito casa intendevi dire. Secondo me, però, è il contrario: questa tecnica funziona bene coi testi medio/lunghi, meno con quelli brevi, nei quali la possibilità di manovra è ridotta di molto.
Ti ringrazio e ti auguro la buonanotte.  :love:

Re: [CP13] Istanza

@Adel J. Pellitteri@Poeta Zaza@confusa, grazie!  :love:

Poeta Zaza ha scritto: mer nov 29, 2023 6:38 pmOsservo soltanto, per la cronaca, che il tuo è un "estratto" da un testo altrui, ricavato con la tecnica della Balckout poetry.
Sì, Zaza, lo so!
Poeta Zaza ha scritto: mer nov 29, 2023 6:38 pmHai sfruttato 52 caratteri sui 4.514 disponibili. La sproporzione di caratteri sfruttati rispetto a quelli disponibili, nel tuo caso, ha la "forbice" più larga
Zaza, fammi capire: da quando la poesia (se la mia si può chiamare così) va a peso?

[CP13] Istanza

Traccia n. 2

da L. Pirandello, Nel segno

Come seppe che nella mattinata gli studenti di medicina sarebbero ritornati all’ospedale, Raffaella Òsimo pregò la caposala d’introdurla nella sala del primario, dove si tenevano le lezioni di semejotica.
La capo-sala la guardò male.
– Vuoi farti vedere dagli studenti?
– Sì, per favore; prendete me.
– Ma lo sai che sembri una lucertola?
– Lo so. Non me n’importa! Prendete me.
– Ma guarda un po’ che sfacciata. E che ti figuri che ti faranno là dentro?
– Come a Nannina, – rispose la Òsimo. – No?
Nannina, sua vicina di letto, uscita il giorno avanti dall’ospedale, le aveva mostrato, appena rientrata in corsia dopo la lezione là nella sala in fondo, il corpo tutto segnato come una carta geografica; segnati i polmoni, il cuore, il fegato, la milza, col lapis dermografico.
– E ci vuoi andare? – concluse quella. – Per me, ti servo. Ma bada che il segno non te lo levi più per molti giorni, neppure col sapone.
La Òsimo alzò le spalle e disse sorridendo:
– Voi portatemi, e non ve ne curate.
Le era tornato in volto un po’ di colore; ma era ancor tanto magra; tutta occhi e tutta capelli. Gli occhi però, neri, bellissimi, le brillavano di nuovo, acuti. E in quel lettuccio il suo corpo di ragazzina, minuscolo, non pareva nemmeno, tra le pieghe delle coperte.
Per quella capo-sala, come per tutte le suore infermiere, era una vecchia conoscenza, Raffaella Òsimo.
Già due altre volte era stata lì, all’ospedale. La prima volta, per… – eh, benedette ragazze! si lasciano infinocchiare, e poi, chi ci va di mezzo? una povera creaturina innocente, che va a finire all’ospizio dei trovatelli.
La Òsimo, a dir vero, lo aveva scontato amaramente anche lei, il suo fallo; due mesi circa dopo il parto, era ritornata all’ospedale più di là che di qua, con tre pasticche di sublimato in corpo. Ora c’era per l’anemia, da un mese. A forza d’iniezioni di ferro s’era già rimessa, e tra pochi giorni sarebbe uscita dall’ospedale.
Le volevano bene in quella corsia e avevano carità e sofferenza di lei per la timida e sorridente grazia della sua bontà pur così sconsolata. Ma anche la disperazione in lei non si manifestava né con fosche maniere né con lacrime.
Aveva detto sorridendo, la prima volta, che non le restava ormai più altro che morire. Vittima come era, però, d’una sorte comune a troppe ragazze, non aveva destato né una particolare pietà né un particolar timore per quell’oscura minaccia. Si sa che tutte le sedotte e le tradite minacciano il suicidio: non bisogna darsi a credere tante cose.
Raffaella Òsimo, però, lo aveva detto e lo aveva fatto.
Invano, allora, le buone suore assistenti s’eran provate a confortarla con la fede; ella aveva fatto, come faceva anche adesso; ascoltava attenta, sorrideva, diceva di sì; ma si capiva che il groppo che le stringeva il cuore non si scioglieva né s’allentava per quelle esortazioni.
Nessuna cosa più la invogliava a sperare nella vita: riconosceva che s’era illusa, che il vero inganno le era venuto dall’inesperienza, dall’appassionata e credula sua natura, più che dal giovine a cui s’era abbandonata e che non avrebbe potuto mai esser suo.
Ma rassegnarsi, no, non poteva.
Che se per gli altri la sua storia non aveva a di particolare, non era per ciò men dolorosa per lei. Aveva sofferto tanto! Prima lo strazio di vedersi ucciso il padre, proditoriamente; poi, la caduta irreparabile di tutte le sue aspirazioni.
Era una povera cucitrice, adesso, tradita come tante altre, abbandonata come tante altre; ma un giorno… Sì, anche le altre, è vero, dicevano allo stesso modo: – Ma un giorno… –e mentivano; perché ai miseri, ai vinti, sorge spontaneo dal petto oppresso il bisogno di mentire.
Ma lei non mentiva.
Giovinetta ancora, lei, certamente avrebbe preso la patente di maestra, se il padre, che la manteneva con tanto amore agli studi, non le fosse venuto a mancare così di colpo, laggiù, in Calabria, assassinato, non per odio diretto, ma durante le elezioni politiche, per mano d’un sicario rimasto ignoto, pagato senza dubbio dalla fazione avversaria del barone Barni, di cui egli era segretario zelante e fedele.
Eletto deputato, il Barni, sapendola anche orfana di madre e sola, per farsi bello d’un atto di carità di fronte agli elettori, la aveva accolta in casa.
Così era venuta a Roma, in uno stato incerto: la trattavano come se fosse della famiglia, ma figurava intanto come istitutrice dei figliuoli più piccoli del barone e anche un po’ come dama di compagnia della baronessa: senza stipendio, beninteso.
Lei lavorava: il Barni si prendeva il merito della carità...

portatemi 
un po' di colore
tra le pieghe 
delle lacrime.

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