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Re: I Ciliegi di Ferro - prologo

Ti ringrazio per il commento, fa molto piacere ricevere dei pareri su questo pezzo, perché è l’inizio di un progetto abbastanza lungo che sto portando avanti a tempo perso 
La scelta di usare gli elfi è perché sono, per “tradizione”, una razza molto longeva e quindi li ho ritenuti più semplici da associare all’idea di immortalità tipica di questo popolo
Ippolita ha scritto: L'azione del raccogliere i capelli precede quella di legarli in una treccia, pertanto invertirei la sequenza.
Devo aver spiegato male: prima i capelli sono acconciati in una treccia, poi la treccia è raccolta e “avvolta” dietro la testa in uno chignon (termine che però non sapevo come inserire nel racconto)
Ippolita ha scritto: Di chi si tratta?
In realtà preferisco non specificarlo, perché pur essendo il prologo del racconto è successivo al resto del testo, quindi il non dire direttamente di chi si tratta serve a creare un poco di interesse per il resto della storia; ad ogni modo, si tratta dell’elfo Shiaki che è menzionato sopra, esiliato invece che giustiziato 

I Ciliegi di Ferro - prologo

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Sottili fili di fumo salivano dai bastoncini di incenso.
Rui fissava il muro, senza vederli. Se c'era qualche indicazione sul futuro, in quei piccoli serpenti grigiastri che si mescolavano l'un l'altro, lei non la vedeva.
Aveva finito da tempo di recitare tutte le preghiere che ricordava, invocando uno ad uno tutti gli dei che suo padre le aveva insegnato.
Non era servito a nulla. Il senso di paura era ancora lì, un animale che fingeva di essere addormentato.
Incapace di star ferma, Rui si alzò, quasi inciampando nel lungo vestito. Sembrava passato un secolo, o più, da quando aveva indossato tutto l'abbigliamento di corte. I lunghi capelli, acconciati in una stretta treccia e raccolti dietro la testa, le tiravano la pelle, dandole l'odiosa sensazione che qualcuno cercasse di trattenerla. Sentire l'aria sulle orecchie appuntite, poi, sembrava quasi un'esperienza nuova, dopo tanto tempo passato a tenerle coperte.
Mentre ritrovava l'equilibrio, e si sforzava di muoversi con i piccoli passi concessi dal lungo kimono, la giovane elfa guardò le due ancelle dietro di lei.
Silenziose e sorridenti, avvolte anche loro nei complicati abiti dettati dall'etichetta, non aveva dubbi che si sarebbero mosse con molta più grazia e rapidità. Un sorriso triste le incurvò le labbra, al ricordo di quando anche lei aveva quelle capacità. Sembrava passata una vita.
Rui, con un sospiro, raggiunse finalmente la finestra. Fuori, l'ultima pioggia d'inverno lasciava il passo alle sere di primavera. Le stelle brillavano, aprendosi a forza varchi nella coltre di nuvole sempre più sottile. Una luce splendeva su una torre in lontananza, forse suo padre che stendeva l'oroscopo per qualcuno.
Chiuse gli occhi, scacciando il ricordo.
Avevano supplicato per molto, troppo tempo. Troppo perfino per essere davanti all'Imperatore. Alla fine, le lacrime di suo padre e di sua sorella avevano vinto.
Un altro sorriso, ancora più amaro. Il pensiero di Harumi in lacrime le fece ardere un fuoco nel petto. Respirò piano per calmarsi, mentre la seta delicata del kimono prudeva come ruvida lana.
Harumi ed il suo orgoglio. Harumi e la sua dignità. Harumi ed i suoi discorsi sul coraggio.
Tutto evaporato in un attimo, tutto svanito in un battito di ciglia.
Aveva iniziato a piangere sul primo dei cento scalini, aveva continuato per tutta la sala. Aveva rivolto occhiate supplichevoli a tutti quei dignitari, a tutti quelli avvoltoi. Lei non c'era riuscita.
Lei, la maggiore, quella cresciuta con le ancelle e le sacerdotesse, a pane e preghiere. Aveva imparato a creare composizioni con i fiori, Harumi a cavalcare; a cantare e danzare, Harumi a tirare con l'arco. Quella vita sembrava lontana, distante. La vita di un'altra ragazza, di un'altra giovane elfa.
Davanti all'imperatore, mentre Harumi si scioglieva in lacrime, buttandosi a terra in ginocchio, lei non c'era riuscita.
Gli occhi le erano rimasti asciutti, aridi. La bocca non aveva voluto saperne di aprirsi. Le ginocchia si erano rifiutate di piegarsi. Lo aveva fissato. Aveva guardato dritto davanti a se, verso il trono, la piccola figura avvolta da strati e strati di stoffe gialle e rosse.
Fuori, ormai, le stelle avevano vinto la loro battaglia con le nuvole. Le fuggiasche sparivano oltre i tetti delle case. Oltre, a molte miglia verso ovest, forse il cielo era abbastanza limpido per navigare.
Forse, in quel momento, lo stavano facendo salire sulla nave. O forse era già nella stiva, incatenato a qualche cassa. Un fulmine saettò in lontananza, simile al bagliore di una lama. Una spada che scendeva veloce a tagliare un collo esposto.
Rui scosse la testa, rifiutandosi di dar forma a quel pensiero. Strinse i pugni, desiderosa di strapparsi di dosso quel dannato kimono, quei maledetti gioielli. Voleva salire a cavallo, galoppare fino al porto. Vederlo un'ultima volta. Un brandello di lucidità la bloccò. Non ce l'avrebbe mai fatta, nemmeno con il cavallo più veloce dell'arcipelago. E poi, dipendeva da lei.
L'accordo, il patto su cui si fondava il tutto, era quello: lei rimaneva lì, in quella corte infernale, e lui viveva.
«Chiedo la grazia per Tengu no Shiaki, gregario di Masato»
Ancora adesso, a quasi due settimane, non credeva che lo avesse detto veramente.
Ricordava il silenzio, lo stupore. La sala del trono, di colpo, era diventata così silenziosa che lei sentiva il suo cuore battere. Calmo, lento, dignitoso come un tamburo rituale. Le avevano detto, in seguito, che aveva ripetuto quella frase per tre volte, incurante di tutto. L'aveva ripetuta nel silenzio sempre più attonito, ed alla fine l'imperatore aveva dato il suo assenso.
Per quanto si sforzasse, Rui non ricordava le parole del Figlio delle Nubi.
Tutto ciò che le era rimasto era lei che si inchinava, attendendo poi la sentenza per la sua famiglia. E la soddisfazione. Il sollievo. Aveva ottenuto quello che voleva. Potevano anche ucciderla.
Quel pensiero le era rimasto fisso nella mente. Anche adesso, con le ancelle che la guardavano, con le stelle che brillavano, con la città addormentata davanti a lei. La sua vita dipendeva dal capriccio di altri, lo sapeva.
Non ne era spaventata.
Un anno prima, la sola idea, un assassinio improvviso, un complotto nell'ombra, l’avrebbe terrorizzata. Non capiva dove fosse finita quella paura, adesso.
Strinse la mano all’altezza della cintura, davanti al petto. Un moto d’ansia la colse, la sensazione di aver perso qualcosa d’essenziale, mentre muoveva la mano alla ricerca del manico del wakizashi. Essendo una dama di corte, non le era permesso portare armi. Nei lunghi mesi all’est, prima di quel dannato inverno, non si era resa conto di essersi abituata al peso ed alla presenza di quell’oggetto.
Un bussare sommesso la richiamò al presente. Lo ignorò. Dopo un poco, un'ancella diede il permesso di aprire. La porta scorse di lato, rivelando Harumi, vestita con un sontuoso kimono rosso brillante, il volto dipinto di bianco, inginocchiata sul pavimento.
Rui sentì il bisogno di schiaffeggiarla, colpirla fino a toglierle quel trucco
«Il principe Hideaki ci invita a partire con lui, domani mattina- disse sua sorella -andremo ad sud, ad Hanami, a vedere i ciliegi»
«Andrete» rispose Rui, le mani che si stringevano fino a conficcare le unghie nella carne.
Sentì gli occhi delle ancelle su di lei. Li ignorò. Che pensassero quello che volevano
«Sorella, ti prego» insisté Harumi, la voce che si tingeva di lamento «è una grande opportunità per entrare nelle grazie del principe!»
«Grazie da cui mi voglio tenere molto alla larga, Harumi» Rui sentì il veleno delle sue parole gocciolarle dalle labbra «credevo di averlo messo bene in chiaro»
«Ci sarà anche l'imperatore, mia signora» si intromise un'ancella, inchinando il capo.
Rui strinse i denti, decisa a frantumarli
«Sarebbe molto scortese, non accompagnare sua maestà» fece l'altra servitrice.
Lunghi momenti di silenzio, con le tre che la fissavano. La rabbia le ribolliva dentro, mentre sforzava gli occhi, sperando di vedere qualcosa. Una luce, un pennone, una vela. Un segno che lui fosse salpato
«Comunica a sua maestà che sarò lieta di accompagnarlo» disse, cacciando fuori a forza le parole.
Le ancelle e Harumi sorrisero, lei attese qualche altro momento poi le congedò. Le tre andarono a preparare i bagagli, le sentì chiacchierare mentre si allontanavano fuori dalla porta.
Rimasta sola, Rui sentì un manto di piombo caderle addosso. Mille lame incandescenti la trapassarono. Tutta la paura trattenuta fino a quel momento le esplose nel petto.
Cadde in ginocchio, battendo i pugni contro il muro, mordendosi la lingua mentre le lacrime le solcavano le guance.
“Si piange in silenzio”, le aveva detto, una vita fa “perché nessuno deve vederti debole”.
Lei non si sarebbe mostrata debole. Non a sua sorella, non al principe, non all'imperatore. Nemmeno agli dei.

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