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[CC23] Spegnete le luci - Biancaneve



Traccia n. 4 - Luci/e
Boa: Deve apparire almeno una maschera
Titolo: Spegnete le luci

«Le luci in corridoio! Quante volte ho detto che dovete spegnerle?» tuona mio padre, appena mette piede in casa.
Adesso andrà fuori di testa, come sempre quando succede. Scappo in bagno, tanto lo so che è stato mio fratello a lasciarle accese. E infatti lo sento che risponde a papà: gli urla contro, ammette che è colpa sua, che lo ha fatto solo per dispetto. Mio padre urla ancora più forte. In sottofondo la voce di mamma che, disperata, cerca di mettere pace.
Alzo lo stereo, non voglio sentirli.
Mi chiamo Bianca, e ho tredici anni. I miei genitori mi chiamano Biancaneve, anche se io Biancaneve la odio.
Prima non era così, anzi… mi divertiva essere chiamata in quel modo, mi faceva sentire una principessa. È cambiato tutto un mese fa, quando mamma mi ha cucito un vestito da Biancaneve. Per carnevale io volevo travestirmi da Harley Quinn, la protagonista di Suicide Squad, mamma però ha detto che non possiamo permetterci di spendere soldi per certe cose, che ci avrebbe pensato lei. E mi ha cucito un orribile vestito da Biancaneve.
Le sue parole mi rimbombano ancora in testa: «Non possiamo permetterci di spendere soldi per certe cose».
Non è sempre stato così: fino a tre anni fa stavamo abbastanza bene. Mia madre è casalinga, mio padre faceva la guardia giurata. Certo, non eravamo ricchi, ma rispetto a ora…
Con la pandemia papà ha perso il lavoro, e ha iniziato ad arrangiarsi. Fatto sta che ora guadagna la metà, ma da un anno le bollette e le spese sono raddoppiate, e noi siamo diventati poveri. Mio fratello dice che è colpa della guerra dei russi, papà invece se la prende con gli speculatori. Quello che sia, l’ultima settimana del mese mangiamo solo riso in bianco, perché i soldi per fare la spesa sono finiti.
Papà è sempre nervoso. Le luci, poi, sono diventate la sua ossessione: fosse per lui dovremmo vivere al buio, e accenderle solo quando è necessario. Ci sgrida sempre, se le teniamo accese mentre siamo al computer o guardiamo la tele.
Ma è quando le lasciamo accese in una stanza dove non c’è nessuno o in corridoio che va davvero fuori di testa… mi mette paura. Ci dice che siamo solo dei ragazzini viziati, che non capiamo niente e che siamo irresponsabili. Che è lui a spaccarsi la schiena per farci mangiare, e che noi non ci rendiamo conto dei sacrifici che stanno facendo lui e mamma per non farci finire in mezzo a una strada.
Ogni volta urla più forte, e ogni volta minaccia di raddrizzarci la schiena con parole sempre più feroci. Io sono terrorizzata, tanto che adesso non accendo più la lampadina che ho sul comodino neanche per leggere un libro: mi infilo sotto le coperte e mi faccio luce con il telefonino, così se papà si affaccia nella nostra cameretta vede che è tutto buio e non dice nulla.
Il problema è mio fratello, che non ha paura. Forse è perché ha già compiuto diciotto anni, e adesso che è maggiorenne si sente un uomo.
Le luci le lascia accese di proposito; ogni volta che papà sta per tornare a casa le accende tutte, per dispetto. Mamma si trascina per casa, silenziosa e disperata come un fantasma triste, e le spegne. Poi, mio fratello le riaccende. E così via, fino a quando papà non rientra. E allora iniziano le urla, gli insulti, le minacce.
  Mio fratello si comporta così da circa un mese, più o meno da quando mamma mi ha cucito l’abito da Biancaneve.
A pensarci bene, è stato proprio in quel periodo che sono cambiati tutti in peggio, a casa. Papà è diventato sempre più nervoso e irascibile. Mamma sempre più spenta e triste. E mio fratello… mio fratello sempre più incattivito e irrispettoso.
Ricordo che quel periodo è successa una cosa strana.
Sentivo spesso mamma e papà discutere, la sera. Il problema era l’affitto, che non riuscivano più a pagare da mesi. Avevano paura che il padrone di casa, un signore grasso e puzzolente, sempre sudato, ci sfrattasse tutti. Nelle ultime settimane lo vedevo spesso nel palazzo, che veniva a battere cassa a noi e agli altri inquilini morosi.
Una sera ho sentito i miei che, nella loro stanza, parlavano a voce bassa di non so quale soluzione che il grassone aveva proposto loro. Mamma piangeva e singhiozzava, papà provava a consolarla, ma giurerei di aver sentito piangere anche lui. E allora sono scappata in camera, mi sono infilata sotto le coperte e mi sono messa le cuffie alle orecchie, per rifugiarmi nella musica.
Una settimana dopo, era un sabato pomeriggio, papà ha preso me e mio fratello e ci ha portati a mangiare un gelato al centro commerciale. Non lo aveva mai fatto prima, e la cosa ci è sembrata strana. Però io ero contenta, mio fratello invece era nervoso come non lo avevo mai visto prima.
Continuava a chiedere a papà perché mamma non era venuta, e il gelato neanche lo ha voluto. Anzi, continuava a dire di voler tornare subito a casa. Alla fine, nostro padre ha dovuto cedere e ci siamo rimessi in macchina, anche perché altrimenti mio fratello se ne sarebbe tornato con l’autobus. Solo che papà ha fatto la strada più lunga, quella dove c’è sempre un sacco di traffico, e ci abbiamo messo un’ora, a rientrare.
Quando siamo arrivati, nel portone abbiamo incrociato il padrone di casa. Sembrava più grasso e sudato del solito, e quando ci ha salutato aveva stampato sul viso un sorriso indecifrabile. Papà, invece, ha abbassato lo sguardo e non ha detto neanche “ciao”, o “buonasera”. Sembrava un cagnolino bastonato… è stato stranissimo vederlo così, lui che a casa urla sempre per questo e quello, soprattutto per le luci.
Comunque, da quel giorno il padrone di casa non l’ho visto più, e del problema dell’affitto non se ne è più parlato.
Ricordo che siamo saliti al piano in ascensore. Nessuno ha detto una parola. Poi, mio fratello è andato subito a cercare mamma. Era in bagno. Ci è rimasta ore, quel giorno. Si sarà fatta quattro docce… neanche fosse estate. Papà, che di solito se qualcuno spreca troppa acqua si mette a urlare, non ha neanche protestato.
La sera, a tavola, mamma sembrava un fantasma. Aveva le occhiaie, le mani le tremavano, non riusciva a guardarci negli occhi. Ha detto che aveva l’influenza e che non si sentiva bene, e poi se ne è andata a letto, dove è rimasta per tre giorni di fila. Secondo me ha preso freddo, si è fatta la doccia troppe volte. Comunque, dopo quell’influenza non si è più ripresa: da allora non l’ho più vista sorridere, e adesso è sempre stanca, silenziosa e triste. Secondo me ha preso il Covid, anche se lei dice di essersi fatta il test e che era negativo.
In quei giorni anche mio fratello è cambiato. Si è incattivito. Una sera ha preso a calci l’anta dell’armadio della nostra cameretta e l’ha rotta… mi ha messo paura quasi come me ne mette papà.
«Tu non hai capito cosa è successo a mamma, vero?» mi ha detto.
Gli ho balbettato che aveva preso l’influenza, ma che secondo me era Covid. Lui mi ha guardato come se mi volesse dire qualcosa, poi ha tirato un pugno sull’armadio e mi risposto a denti stretti che sì, mamma aveva preso il Covid. Comunque, da allora ha iniziato a lasciare le luci accese.
Più le lasciava accese, più papà si arrabbiava. E più papà si arrabbiava, più lui le lasciava accese. Proprio come stasera.
Abbasso lo stereo… mi sembra di non sentire più niente, di là. Esco dal bagno e mi avvicino alla porta della cucina, per sbirciare se tante volte avessero fatto pace.
Dopo due passi mi rendo conto che non hanno smesso di litigare; anzi, riprendono a urlare ancora più forte di prima. Rimango impietrita al centro del corridoio mentre sento mia madre che, tra le lacrime, implora mio fratello di smetterla e di andarsene in camera. Lui, per tutta risposta, le dà della puttana. A papà, invece, urla che è un pappone.
«Lo so cosa è successo con l’affitto» urla. «Andatevene affanculo, voi e le vostre luci del cazzo.»
Vedo mio padre uscire dalla cucina come una furia. La sua faccia è trasfigurata… non sembra neanche più lui. Mi passa accanto senza neanche guardarmi ed entra in salone. Lo seguo con lo sguardo e lo vedo prendere la scatola che c’è sull’armadio. Lo so cosa contiene: la pistola di quando faceva la guardia giurata, me l’ha fatta vedere mio fratello.
Papà impugna la pistola e viene verso la porta. I nostri sguardi si incrociano. Scappo in cameretta, mi chiudo dentro.
Papà, intanto, deve essere tornato in cucina, perché sento ancora urla. Urla e implorazioni, di mio fratello e di mia madre. Poi due spari. E il silenzio.
Ho in cuore in gola, mentre sento i passi di papà nel corridoio. «Biancaneve?» dice, con la voce rotta. «Biancaneve… sei in camera?»
Non so che fare. Apro la finestra, che è vicina al balcone dei vicini. Papà, intanto, inizia a prendere la porta a calci.
«Apri, Biancaneve.»
Guardo il balcone, ma a saltare non ce la posso fare, io soffro di vertigini.
«Ho detto apri!»
Giù in strada vedo due bambini che si rincorrono e giocano a fare la guerra. Uno ha la maschera di Zorro e una spada, l’altro è vestito da indiano, con arco e frecce.
Oggi è carnevale. E io non sono neanche uscita: non volevo indossare il dannato vestito da…
«Biancaneve! Apri cazzo, o sfondo la porta.»
Penso al vestito, che è buttato alla rinfusa nel grande armadio. Scosto l’anta rotta e mi ci fiondo dentro, seppellendomi sotto una montagna di panni puliti e sporchi, miei e di mio fratello.
Faccio appena in tempo a coprirmi che mio padre riesce a entrare. Si avvicina all’armadio, lo vedo da sotto i vestiti che mi nascondono.
Apre l’anta, ma non si accorge di me: ha davanti solo abiti ammucchiati. Prende quello da Biancaneve e lo stringe a sé, poi si accorge della finestra aperta e vi si avvicina.
«Biancaneve…» mormora, guardando fuori.
Poi si siede sul letto. Ha ancora il costume cucito da mamma stretto al petto. Si ficca la pistola in bocca. Spara.
Ma la cosa che ricorderò per sempre non è il suo cervello che schizza via. No, perché quello l’ho solo intravisto, alla luce dei lampioni.
Ciò che ricorderò per sempre è mio padre che, prima di sedersi e spararsi in bocca, va a spegnere la luce.     

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