La ricerca ha trovato 7 risultati

Torna a “Una luce nel bosco”

Re: Una luce nel bosco

@Kasimiro grazie infinite anche a te per la lettura e il commento.
Per cause di fornza maggiore sono poco presente in questo periodo, ma non mancherò di ricambiare leggendoti e commentandoti (e tentando di farlo accuratemente come tu hai fatto).
A presto!

Re: Una luce nel bosco

@Zouks ti ringrazio della lettura e del commento. Devo dire che condivido tutte le tue note, delle quali farò tesoro.
Per quanto dai miei ringraziamenti sotto spoiler possa sembrare che questa sia una stesura definitiva, no: non riesco mai a finire davvero i miei racconti. Questo, ad esempio, è stato successivamente pubblicato da una rivista e ha subito (beneficiato di) un ulteriore editing. Che, immagino, non sarà neppure l'ultimo...

Per quanto riguarda i tuoi spoiler, in entrambi i casi, come ho già detto in una delle risposte sopra, ci ho giocato un po', cercando di fare in modo che fossero punti indefiniti e, soprattutto, non servissero strettamente ai fini del senso della storia, lasciando, eventualmente, al lettore che ne senta il bisogno, la scelta delle ipotesi che gli sembrino più congeniali.

Grazie ancora e a rileggerci.

Re: Una luce nel bosco

@Almissima (perdonami il ritardo nella risposta), grazie a te della lettura e dell'interessante interpretazione.
Devo dirlo anche a te: vai al di là delle mie intenzioni, almeno quelle razionali che mettiamo nella scrittura narrativa.
Vero, vero... però, mi dico. Hai colto aspetti che ci sono, come negarlo rileggendo(mi) sotto la luce del tuo commento?

Solo per quanto riguarda il rapporto con il padre, la mia intenzione è non "negoziabilmente" diversa dalla tua lettura: il mio protagonista, come in un sogno, non ricorda nemmeno che suo padre è già trapassato. Ne ricorda solo lo sguardo e il contatto (che non c'era più semplicemente perché il padre non era più). Ma ci fu, eccome. Non è detto, però che si sia perduto solo per sopraggiunta morte del papà: nella mia visione certe cose si perdono nel passaggio dall'infanzia all'età adulta. Per tornare, forse, quando è il genitore, ormai anziano, a dover essere accudito da un figlio. Ma non a tutti è dato di poter rendere al proprio genitore ciò che nell'infanzia si è avuto in dono da lui (cura, amore, carezze, preoccupazioni). Non è il caso di questa storia, infatti.
Quindi:
Almissima ha scritto:é lo sguardo amorevole del padre che mai in vita lo aveva guardato cosí. Uno sguardo che fa scattare una sorta di nostalgia per ció che mai era stato vissuto.
per me lo aveva guardato (eccome!) e la nostalgia è proprio per ciò che davvero è stato e a un certo punto ha cessato di essere.
Si tratta, sempre nella mia interpretazione (che però, alla fine, vale quanto la tua), di una sorta di rappresentazione del cliché della "scarica di endorfine", che ti fa passare davanti agli occhi tutta la tua vita. Qui il protagonista (pur già fantasma) non vede tutta la sua vita in un istante, ma dedica tutto quell'istante solo a una cosa bella della sua vita (forse la più bella?): il ricordo dello sguardo che il padre aveva per lui, e il contatto caldo della sua mano (mi denuderò e confesserò anche che il sentimento che ispira questa parte è autobiografico).

Però sì, ribadisco: la tua lettura, pur diversa, ci sta senz'altro e ciò mi inorgoglisce: (per sbaglio :asd: ) devo aver scritto qualcosa di abbastanza valido, se può essere così intensamente e puntualmente interpretato dal lettore.

Grazie ancora e a rileggerci.

Re: Una luce nel bosco

@Bob66 Grazie della lettura e del commento.
Come accade spesso, il lettore in un racconto può trovare (ed è, naturalmente, bontà sua) risvolti, interpretazioni e significati che l'autore non ha inserito consapevolmente.
Io amo le ghost stories, adoro i morti che non sanno di esserlo e qui, semplicemente, ho provato a cimentarmi con questi elementi.
Poi, sì, il contesto è la vita reale, con ciò he ci ho messo dentro io (una relazione che finisce, un protagonista che forse dissimula il proprio dolore, amici che pretendono di venire in soccorso), oppure con ciò che (di più profondo e "problematico") vi hai trovato tu. E che va benissimo, eh!
Ma il nucleo di questa storia, secondo le mie intenzioni, è proprio e solo "il passaggio". Che io, qui, immagino e interpreto come mal riconoscibile da chi lo vive.
Una cosa sulla quale ho puntato molto (non so se sia da apprezzare, o se confonda solo la storia) è che il lettore (esattammente come il protagonista) non doveva accorgersi esattamente quando arriva il momento della morte. Nè importa se la morte sia stata causata da un incidente o da un atto voluto (anche questo lo lascio alla libera interpretazione di chi legge). Perché di fronte alla morte questo non conta più.
Ed è vero quello che cogli: c'è un velo di stanchezza esistenziale, e la natura, prima cercata e accogliente, alla fine pare rivelarsi come per lo più ostile (o agente per conto di un mandante ostile). Ma non è così nella "realtà" che il racconto svela: queste sono le nostre interpretazioni. Nostre (di vivi) e del protagonista (che crede di esserlo ancora per un po'). Invece c'è solo la morte, che nel momento in cui ti reclama ti travolge e dimentichi tutto, sei costretto a dimenticare. Perché tutto, ormai, è cosa da vivi.
Il finale è sospeso, ma per me il padre potrebbe essere lì per anche solo per dirgli: "Lascia perdere, lascia fare. Nuje simmo serie, appartenimmo à morte!"
 

Una luce nel bosco

Una luce nel bosco
 
 
«Comunque, guarda, se qualcuno può parlarti così, sono io: ve ne farete entrambi una ragione.»
Ecco, se c’era una cosa che temevo di questa gita in montagna, iniziata di prima mattina e della quale sono già stufo, era che gli amici si mettessero a farmi sermoni. Guardo Carlo con un’espressione inequivocabile.
Forse ha capito.
«Se permetti conosco Camilla» prosegue lui che no, evidentemente non ha capito «e so che non devi sentirti in colpa. D’accordo, adesso è a terra, come del resto lo sei tu. Ma io che ci sono passato ti dico: vedrai che…»
Basta, non ce la faccio più. Prima Daniela, ora Carlo. Se allungo il passo, lungo il sentiero raggiungo gli altri. Avranno anche loro da dispensarmi sapienza?
Però li capisco: si è appena separata una coppia che tutti loro consideravano granitica e so cosa pensano: “Se è capitato a loro può davvero capitare a tutti.”
Proseguo senza più ascoltare. Passiamo a poca distanza da un costone che dà a strapiombo sul fondovalle. Mi avvicino, guardo in basso e provo un irrefrenabile desiderio di spingere giù Carlo che continua nel suo monologo. Se lo faccio le sue parole mi tormenteranno per l’eternità: desisto. Potrei buttarmi giù io ma non penso ne valga la pena, basta continuare a non ascoltare.
«Sta’ attento,» s’interrompe «non sei un po’ troppo vicino al bordo? …ATTENTO!»
 
Ok, tranquillo, adesso mi allontano.
Carlo guarda oltre me e poi verso lo strapiombo con uno sguardo strano, quasi costernato. No, di più: terrorizzato. Che mi abbia letto nel pensiero?
Toh, leggi anche questo: “scherzavo, dai”.
Gli passo di fianco e riprendo la salita. Mi segue o rimane lì?
«Ehi, guarda il rifugio, finalmente un caffè!» lo sento dire. Ok, mi segue.
Uh, “finalmente” davvero: qualcosa per il momento ha distratto Carlo, che accelera il passo e si premura di levarmi ogni speranza sul fatto che la sua consulenza psicologica sia finita, perché lo sento aggiungere: «Continuiamo dopo; non ti spiace, vero?».
Certo che mi spiace, stronzo. Potremmo invece non parlarne mai più, dovessimo campare ancora cent’anni dovendoci sopportare fino all’ultimo dei nostri giorni?
Trattengo a fatica il ringhio che rappresenterebbe bene questo mio pensiero e gli sorrido storto.
Ma non posso sopportare oltre: mi siedo e cerco un’idea per liberarmi di lui senza guastare in modo irreparabile la nostra amicizia.
Carlo, intanto, mi ha già staccato di parecchi metri. «Coraggio, acceleriamo il passo!» dice, e mi pare entusiasta come un bambino.
Tutto per un caffè? Strano, questo suo repentino cambio d’atteggiamento: un attimo fa, sullo strapiombo, pareva stravolto.
«Ascolta, guarda» rispondo, «c’è ancora un bel dislivello da qui al rifugio e io non ho le scarpe adatte. Lo so, ho fatto una cazzata, me lo avevate pure detto. Però, adesso, dietro al calcagno ho una vescica grossa come un fagiolo. Se accelero mi si apre e allora son dolori davvero. Io mi fermo qui per un po’. Mi riposo e ci penso su, vedo come va il mio piede e poi farò quest’ultima parte di salita da solo. E se non mi vedrete arrivare vorrà dire che ho deciso di tornare giù e raggiungere Luigi e Daniela per pranzare con loro.
Lui si è voltato e mi squadra, credo stia valutando se può abbandonarmi e se ce la potrò fare da solo.
Poi riprende la marcia di gran lena: evidentemente si fida, nonostante giudichi scarse le mie capacità di sopravvivenza in montagna e nella vita da single.
Finalmente sono solo. Mi guardo intorno e vedo il silenzio, ora che non c’è più la voce di Carlo. Dietro me il bosco, di fronte montagne imponenti, più giù il fondovalle: bellissimo.
Mi rialzo e prendo la via del ritorno. Ancora un’occhiata a destra: il bosco mi tenta con il suo buio. Che bello sarebbe poterci entrare e perdersi, e non avere nessuno che ti viene in soccorso con la sua esperienza e con le sue certezze.
Faccio ancora qualche passo.
No, dai, che senso ha? Poi quel buio mette quasi paura.
Però la tentazione è forte: il folto del bosco mi chiama.
Se faccio un giro là dentro non arrivo in tempo per pranzo.
Poi qualcosa, da uno dei punti più scuri, attira la mia attenzione: sono certo di aver visto un bagliore.
Guardo meglio, esco dal sentiero, supero i primi alberi. Non mi sono sbagliato e non può essere stato un raggio di sole filtrato fra le cime.
Sì, c’è qualcosa; ma gli occhi non sono ancora abituati all’oscurità e non posso esserne certo, questa volta.
Vado verso la direzione dalla quale ho visto provenire quella strana luce. Il freddo si fa intenso, ho i brividi, probabilmente è il sudore che mi si raffredda addosso.
Proseguo ancora un po’ ma non c’è proprio nulla e decido di tornare sul sentiero.
Mi volto e proprio in quell’istante eccolo di nuovo.
I brividi che sento adesso non sono dovuti al sudore. Basta, esco dal bosco, volevo stare un po’ da solo e credevo fosse questo il modo. Ma non mi piace più.
Ciao bosco inquietante! Io me ne vado, vorrei dire, ma mi si stringe un nodo in gola: dove vado?
Mi guardo attorno, sgomento: da dove sono venuto?
Ok, calma: basta seguire l’inclinazione del terreno. Faccio una cinquantina di passi in discesa poi il terreno diventa pianeggiante. Ancora un centinaio di passi e inizia a salire. Qualcosa non torna. Dunque, ragiono sui punti cardinali: per come è rivolto questo versante devo andare a ovest. Guardo verso l’alto ma non riesco a capire da che parte possa essere il sole, la coltre di rami e di verde è troppo spessa. Di muschio sui tronchi nemmeno a parlarne, qui è una perenne penombra.
Sono immobile, trattengo il respiro, sono prossimo a una crisi di panico. Perché non è tanto l’idea di essermi perso che mi spaventa, quanto quella strana attrazione che ho provato, e quei bagliori dai quali, adesso, mi pare quasi di essere stato ipnotizzato. Non vorrei, ma devo confessare a me stesso che qualcosa proprio non va in questa situazione.
Mi guardo ancora intorno e, senza nemmeno scegliere da che parte, mi metto a correre. Ho preso la direzione giusta, il terreno torna a scendere, presto ritroverò la fine del bosco e con essa il sentiero. Poi mi fermo con orrore. Questa volta ne sono certo: era un lampo di luce quello là sotto. Allora mi volto e riprendo a correre dalla parte opposta. Adesso il terrore mi attanaglia e ha preso il controllo dei miei movimenti. Passo accanto ai tronchi ed evito i rami più bassi come se fossi trasportato.
Vivo una scena, non sono io che corro. Non so cosa mi sta capitando, il tempo pare rallentare, mi guardo intorno e vedo gli alberi passarmi accanto e il terreno scorrermi sotto i piedi. Non so nemmeno più se sto correndo in salita o in discesa. Poi guardo nuovamente avanti e vedo quel bagliore che so essere un lampo, ma che non si spegne e continua a crescere di intensità. Gli sto andando incontro. Non posso farne a meno e tutto si fa luce.
Non voglio!
 
L’ho urlato?
Mi risveglio, il sole è già tramontato. Sono a fondovalle. Proprio sotto allo strapiombo da cui io e Carlo, oggi, guardavamo giù.
«Cosa mi è successo?» chiedo.
«Nulla, stai tranquillo: ci sono qua io.»
Mio padre? Cosa ci fa mio padre, qui?
Mi guarda con occhi che non ricordavo e mi prende una mano. Il contatto è caldo e nemmeno questo ricordavo: da quanto tempo mio padre non mi prende per mano in questo modo? E perché a un certo punto della mia vita ha smesso di guardarmi con tanta dolcezza? Va bene, si cresce, si prende la propria strada, ma perché queste cose, così belle, un giorno ti accorgi che non ci sono più fra te e tuo padre?
Lo guardo anch’io e pure il mio sguardo è carico di dolcezza. Capisco che lui è triste ma non so il perché. Non mi guarda più ma è come se continuasse a guardarmi ed è una sensazione strana.
Indica con una mano ciò che sta contemplando. Dev’essere capitato un incidente: vedo un’ambulanza ferma a luci spente, i Carabinieri e tanta confusione.
Poi vedo Daniela che piange e poi Carlo e altri della compagnia. Si abbracciano, hanno le facce sconvolte.
«Papà scusa, devo andare!» dico concitato «è successo qualcosa a uno dei miei amici!»
Lui mi fa cenno di no e mi guarda un’ultima volta, teneramente.
Mio padre è morto dieci anni fa.
ringraziamenti
Questo è il risultato di anni di decantazione dell'antica :asd:  mia partecipazione a un Mezzogiorno d'Inchiostro (nientemeno che il n.33!) del Writer's Dream.
Un sincero mio grazie è dovuto ai commentatori di allora, per il contributo alla revisione che mi hanno offerto. Alcuni di loro sono ancora attivi su questo forum, quindi il ringraziamento non è solo un'astratta formalità.
commento:  viewtopic.php?p=47084#p47084

Torna a “Una luce nel bosco”