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La danza dei gamberi parte 2

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Crescendo però il paese cominciò ad essere stretto come una scarpa di due numeri in meno: distava pochi chilometri dal mare, ma tanti per noi ragazzi senza nessun mezzo, con i genitori perennemente  stanchi che trovavano sempre pronta  una scusa, il caldo, il parcheggio introvabile ,la spiaggia libera piena di cafoni, la spiaggia a pagamento troppo costosa. 
Una volta arrivati parevano inghiottiti dal paese, i parenti li riempivano di attenzioni stando a bocca aperta pronti ad essere imboccati di notizie sulle novità della  metropoli. I miei rispondevano come dei reduci che raccontavano a chi non era partito  le loro esperienze. Una volta zio Ciccio, che era stato perfino vicesindaco ed aveva studiato quasi fino a conseguire una laurea  chiese: - Ma al nord com’è sentita la condizione del lavoratore? 
Mia madre replicò:- Ma sai, i lavoratori sono lavoratori come i padroni sono padroni, non cambia molto.
Lo zio la guardò.
- Ma come, le associazioni, i sindacati cosa fanno? 
Mia madre deglutì, ma le venne in soccorso mio padre che disse:- Mangiano e bevono alla faccia di chi lavora.
Molti dei presenti risero, lo zio Ciccio invece si rabbuiò e per quella volta non chiese più nulla. Era questo lo spettacolo che, se non andavamo al mare, dovevamo sopportare e alcune volte ci coinvolgevano nei loro teatrini: l’unica cosa positiva era la torta di zia Maria e per noi ce ne erano sempre due fette.
 Mario oltre ad essere un scopritore di guai aveva una dote tipica di certi pugili, era un grande incassatore, chiudeva gli occhi e assorbiva anche i colpi più forti che i miei genitori gli davano. Una volta ruppe uno specchio della nonna: mio padre gli lanciò addosso una sedia che lo colpì sul volto e gli aprì in due un sopracciglio che prese a sanguinare, ma lui non pianse. Se io avessi preso metà delle botte prese da Mario sarei rimasto stordito per giorni. Invece lui continuava imperterrito, era come se avesse in testa un suo disegno da mettere in atto. Certe volte era come essere al circo con mio padre cercava di domare una fiera che non si arrendeva, uno spettacolo a cui noi non ci siamo mai abituati.  Mario possedeva una razione superiore di coraggio, io e anche Lucia per questo lo ammiravamo.
I miei genitori dicevano fosse spiccicato la nonna Assunta. Povera nonna quando c’era qualcosa che non andava i miei genitori la mettevano sempre in mezzo a sua insaputa: era l’esempio negativo, una testa dura  che voleva sempre comandare e che non ascoltava nessuno. In effetti la nonna, dopo la morte del nonno, stava sola con i suoi due cani, le sue galline e non voleva saperne di fare altro che quello che gli passava per la testa. Qualche malalingua diceva che nonostante l’età  avesse un’amicizia con un vecchio pastore rimasto come lei vedovo, ma nessuno ha mai capito se fosse vero. Certo era che la nonna parlava poco, era quasi analfabeta, ma si faceva rispettare: quand’era giovane ad una festa del paese si raccontava che spaccò una brocca d’acqua in testa ad un molestatore che aveva provato a metterle le mani addosso. I miei genitori, in particolar modo mio padre, la temevano perché nonostante l’età non si era addolcita, a parte con noi tre nipotini.
Era stata bella, anzi la più bella del paese, con due occhi azzurro trasparente e le dita delle mani lunghe come quelle delle pianiste e i capelli raccolti come le ballerine classiche. Era nata e cresciuta al paese e da quelle case coi tetti spioventi dagli strani colori non si era mai allontanata. I miei  genitori  le dicevano di venire in città per non restare sola, ma lei che era un po’ sorda faceva finta di non sentire, rispondeva sempre la solita frase ”mo’ vengo” , e poi quando la mamma insisteva apriva un sorriso e diceva: -Vengo non ti preoccupare che vengo.-
In verità non è mai venuta stava bene nella sua solitudine, un mare che a noi spaventava, ma che lei sapeva come navigare.
Quando eravamo al paese volevamo ritornare a Milano, quando tornavamo ci accorgevamo che forse avevamo sbagliato. A Milano non c’è il mare, ma comunque da piccoli non stavamo poi così male soprattutto quando scendevamo in cortile. Eravamo in tanti, i genitori  aprivano le porte e dall’alto se si ricordavano ci controllavano. Il cortile era la nostra piazza, il centro del nostro mondo ,ci proteggeva quando papà e mamma si disperavano e litigavano e noi ci vergognavamo e facevamo finta di non sentire.  Ad ogni urlo corrispondevano le nostre grida e quelle degli altri ragazzi che nascondevano insulti , parole, minacce. Erano solo parole, ma noi ne avevamo paura e quando non accadeva che mio padre o mia madre litigavano ci pensavano altre famiglie.  
Se non giocavamo a pallone  tiravamo fuori le nostre figurine e le vendevamo o barattavamo. Sapevamo a chi venderle e a chi no, le davamo solo a chi era un compratore serio e  aveva i soldi in mano.  Era una giusta precauzione perché con molti che masticavano l’aria come noi sarebbe finita male di sicuro. Mia madre se non lavorava si affacciava sul ballatoio  e urlava di salire, ma a noi non bastava mai. Lucia invece  ubbidiva, salutava tutti e saliva le scale. Mario aspettava sempre che fosse sulle scale per colpirla con qualcosa: una volta  le tirò un gavettone e la bagnò tutta. Mario si prese l’applauso per il  colpo da maestro da  tutti gli sghignazzanti ragazzini del cortile, ma anche una scarica di sberle e calci da mio padre, anche se a detta sua ne era valsa la pena.
 

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