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Re: [Lab 3] Lei

Ciao a tutti, 
voglio innanzitutto ringraziarvi per essere passati a leggere Lei, ho ricevuto commenti molto interessanti e ben argomentati, e di questo sono molto felice perché da ogni singolo parere ho tratto beneficio, le vostre opinioni saranno per me spunto di riflessione e meditazione! I laboratori innanzitutto servono proprio a questo: a farti "vedere" cose che tu non vedi, a "far pace" con le tue capacità (sì, perché personalmente sono sempre un po' in guerra con me stessa) ma soprattutto ad accettare i tuoi limiti, per superarli, s'intende! Quindi grazie   <3
Vengo ora a qualche chiarimento: 
1- La trama! Tutti i vostri commenti sono accomunati dallo stesso leitmotiv; una trama debole. Che posso dire, è vero. Però, in questo lab3 incentrato sulla tecnica dello "show, don't tell" attraverso la quale occorreva far emergere un mutamento, la prima cosa che mi è venuta in mente non era tanto la costruzione di un fatto, ma l'estemporaneità di un momento di vita vissuta. Farlo vedere. (Se ci sono riuscita non lo so, però ci ho provato).
Come se un occhio esterno irrompesse nella vita di qualcuno e ne rubasse uno stralcio. Anche più in generale, ma questo è un parere personale, per me ogni frammento è una storia compiuta... una microstoria, un fotogramma di vita che prendo per com'è, per come mi arriva, senza star lì a chiedermi "sì, ok, ma quindi che succede dopo?" Non è il dopo a spingermi nel voler continuare a leggere una storia (o a scriverla), è il senso. Certo, concordo con @ScimmiaRossa quando specifica, e ha ragione secondo me, che se devi leggere un intero romanzo in cui non ci siano accadimenti e intrecci di trame, e per di più interamente scritto con la tecnica dello "show", ti spari! Io mi sparerei! Diventerebbe pesante, noioso dopo un po', (anche impossibile da scrivere) ma in questo contesto ho creduto non fosse necessario "ingabbiare" per forza la storia in una trama, non è un racconto in senso stretto, è un esercizio nel quale devo tirar fuori l'immedesimazione, devo mostrare, mi son detta, quindi ecco il motivo per cui ho scelto di "trascurare" il fatto a vantaggio del senso. Le allucinazioni, gli effetti devastanti dell'assunzione cronica di cocaina, questo per me era il senso: un corpo non più libero di autodeterminarsi, un corpo pilotato da Lei. 
Otta ha scritto: La mutazione di cui al tema è nello svelamento che non si tratta di sesso ma di droga? O negli stati torpore/eccitazione del protagonista?
E qui rispondo a @Otta: il mutamento sta negli stati alternati di torpore/eccitazione, volevo appunto che fosse mostrato il crudele potere che ha la cocaina di privarti della volontà, per agganciarmi a quanto detto prima. Il "succo" della storia, lo scrivo a beneficio di @Almissima che parlava di una "fine vera", è proprio questo: non c'è fine alla dipendenza. E in uno spaccato di vita in cui ho scelto di concentrarmi soltanto sull'altalena dei deliri non ho creduto di dare una "svolta"! (@ivalibri rispondo anche a te). Ecco, spero di aver reso l'idea.  :hm:
aladicorvo ha scritto: Maneggiare lo show ai livelli estremi in cui ti sei avventurata, assomiglia alla passeggiata del bracconiere che deve ricordare dove sono le trappole. Perché ce ne sono e tante! Praticamente impossibile evitarle tutte.
2 - Le trappole: ringrazio e apprezzo tantissimo @alidicorvo per la sua osservazione, hai perfettamente ragione, nel brano esistono dei "pezzi", che giustamente chiami trappole, che spezzano lo "show" e fanno emergere chiaramente la tentazione dell'io narrante di volersi intrufolare perché deve narrare, è più forte di lui. E qui mi collego con quanto ho scritto nei commenti agli altri racconti: a mio parere, ma potrei anche sbagliarmi, la bestia dello "show" va necessariamente addomesticata con qualche "tell", per non far smarrire il lettore, per dare un minimo di cornice al quadro mi viene da dirti, e per non creare quel senso eccessivo di smarrimento lungo la strada della lettura. L'importante è che la parte narrata non prevalga sul mostrato, che sia ben bilanciata, almeno, il mio intento era questo. Qualche semino qui e lì... è stato più forte di me!  :P  Comunque grazie, con i tuoi interventi sul testo mi hai dimostrato che si può estremizzare di più lo "show", io non c'ero arrivata!  <3
Otta ha scritto: Non ho capito questo passaggio: "la disposizione delle carte sul tavolo: le prime sei, coperte, le sue, sparpagliate, le altre... vincenti, pensa subito." Ma forse sono io che non so nulla di poker  :lol:
Io non so giocare a poker, nonostante me lo abbiano spiegato infinite volte!!! Ricordo però che se i giocatori sono solo tre, allora le carte per ciascuno sono sei (Ma se qualcuno più esperto di me mi vuole correggere... perché vorrei non aver scritto "fregnacce"  :facepalm: ). @Otta, in ogni caso, riprendo un commento che spiega alla perfezione la scelta di mostrare il protagonista che osserva le carte sul tavolo:
ScimmiaRossa ha scritto: Visione amplificata dei particolari indotta dalla droga: anche qui sei riuscita a mostrarcelo in 2/3 dettagli, 
Ecco, la dà @ScimmiaRossa: lui, in preda all'effetto della coca, carpisce immediatamente a che punto fosse la partita e capisce chi vincerà, perché la droga amplifica le percezioni e ti rende lucidissimo, ti fa "rischiarare" (anche se momentaneamente) la mente quasi da farti sentire come quegli uomini che hanno i super poteri, stile superman...

3 - Gli stereotipi: e qui ringrazio @bestseller2020 perché ho l'opportunità di precisare alcune "piccole" questioni che tuttavia mi stanno a cuore. La cocaina è diventata democratica, questo è il punto. È vero, come sostieni, che è un "problema" nazionale, e la scelta di utilizzare il dialetto romanesco è puramente utile a me, perché vivo a Roma da più di venticinque anni e, a furia di sentirlo parlare, è entrato nella mia testa come musica naturale, e se è vero, come è vero, che dovevo rendere il più realistico possibile il brano, ho scelto di formulare i dialoghi in dialetto esattamente come avrebbero parlato un gruppo di amici a casa, o da soli quando imprecano per esempio. Non v'è alcuna differenza, avrebbero potuto essere pugliesi, o calabresi, o torinesi, ma non conosco i loro dialetti, quindi ho preferito utilizzare un lessico a me familiare, lungi da me l'idea di circoscrivere l'utilizzo di cocaina a uno specifico contesto/ambiente. Non è limitante, come sostieni qui giù, ma caratterizzante. E sì, certo che fa presa, stiamo mostrando e dobbiamo utilizzare tutti gli strumenti a disposizione; ebbene, la scelta di un dialetto, bada, non il dialetto, ma un dialetto dei tanti che avrei potuto utilizzare, rende efficace la scena, la mostra nella sua verità. 
bestseller2020 ha scritto: Io personalmente ritengo che l'uso del romanesco abbia limitato il perimetro della storia in senso territoriale. Certo che tale dialetto fa molta presa, ma il problema droga è nazionale.
bestseller2020 ha scritto: Forse un "bauscia milanese", ricco sfondato, in un contesto di festa a base di alcool e coca, avrebbe reso meglio. L'idea di utilizzare un borgataro di Roma, per giunta squattrinato, non mi è piaciuta. Come dire, la coca è per gente di basso profilo. sai bene che non è così.
Prima sostieni che sia un "problema" nazionale e poi ti contraddici tu stesso quando affermi che un "bauscia milanese" avrebbe reso meglio. Così sei tu a ingabbiare il "problema" coca nel perimetro di un territorio. Anzi, fai di più; circoscrivi quello che definisci "problema" a un fatto di classe sociale, tirando fuori uno stereotipo francamente stucchevole e, ormai, poco veritiero, roba da "sentito dire", roba da film degli anni ottanta. Non a caso ho scritto, poco sopra, che la coca è diventata democratica da oltre vent'anni. Il suo utilizzo si è diffuso enormemente proprio perché è accessibile a chiunque, e quindi, si! So bene di cosa scrivo, lo so talmente bene che mi hanno fatto male persino le ossa quando ho deciso di scrivere Lei.  
Cerco di entrare in punta di penna, con rabbia e verità. Cruda, senza abbellimenti, senza ghettizzazioni, ripulendo la mia scrittura da ogni possibile e anche involontario cliché. Credo che chiunque scriva debba affondare nella vita vera, prima, altrimenti si corre il rischio di restare nella superficie delle cose, e delle storie. 
"Borgataro" , "squattrinato", "gente di basso profilo" invece non li commento. 

E in ultimo, ma non per importanza, ringrazio @Poeta Zaza per essersi approcciata con sensibilità alla lettura del mio spaccato, @Monica perché lei sa essere risoluta sebbene delicata nei suoi commenti, @Nightafter per le bellissime parole e per l'immeritato e fin troppo generoso paragone..., @Bardo96 per gli esempi forniti (ne farò tesoro).

Ah, una menzione "speciale" a @ScimmiaRossa per questa cosa che scrive sotto
ScimmiaRossa ha scritto: Ora, però vorrei fare una considerazione generale che non è affatto una critica al tuo bel testo.
Quanti di voi leggerebbero un romanzo o un racconto lungo, scritto in questo modo, tutto mostrato? 
Io personalmente no, dopo poco mi annoierebbe. Sento il bisogno di un equilibrio maggiore tra le parti mostrate e quelle raccontate e anzi... A mio parere il raccontato dovrebbe essere usato spesso sì, ma per dare risalto a punti salienti della storia. Non può essere usato sempre sempre, o si rischia davvero di dare la stesso grande importanza a tutto quello che si scrive...e poi più nulla ha importanza.
Detto ciò, a mio parere, qui il problema è che qui la storia è molto debole, di fatto quasi non c'è . Insomma...all'inizio ho pensato: wow! Che brava! C'è uno che si droga e ha la scimmia. E come sa farci percepire bene le sensazioni che prova, davvero brava. 
Poi mi sono detta... Ok ho capito. Il tizio, si droga, ha la scimmia, gli amici giocano a poker.
E poi: Va bene, sì l'ho capito che ha la scimmia e sta male, basta! 😅 Succede qualcosa o no?
Ecco secondo me è proprio questo il problema di questa storia. Quindi alla fine della lettura ero rimasta un po' delusa.
Poi però sai cosa? Mi sono detta che tu...forse sei stata quella che più di tutti ha capito lo spirito del Lab. Infatti ci hai portato un puro esercizio di stile secondo me. Un po' alla Raymond Queneau, dove c'è quel famoso uomo che prende il tram della linea Esse e non succede nient'altro. Ma non è che uno legge gli "Esercizi di Stile" di Queneau per la trama, giusto? 
Ecco il tuo racconto secondo me va interpretato così. 
Complimenti davvero!
Non potrei essere più d'accordo di così, hai incarnato il senso...  (y)  <3

Perdonatemi se vi ho accomunati tutti in un unico mega post, ma mi è sembrata la scelta più semplice per rispondere, e per ringraziarvi, tutti, del tempo speso per me.  
A rileggerci presto! <3

[Lab 3] Lei

Titolo: Lei

Tema del Labocontest  3: "Show, don't tell"


Fa leva sui gomiti, riesce a sollevarsi, struscia un poco, e crolla. Di nuovo: riprende fiato, strizza le meningi, suda, si spinge, riparte, gli manca poco e potrà spazzolarsela. Ecco, la intravede, è bellissima; ora esce la lingua, quasi ce la fa. E invece niente, sente i muscoli liquefarsi e frana, ancora: la faccia sui mattoni come budino sformato. 
Se dovesse morire, stecchito su quel pavimento, senza neppure essere riuscito a farsela tutta, di lui penseranno che è un coglione. Allora si tasta a casaccio, ansima, infila una mano nella tasca del jeans, trova il telefono, quasi non respira, lo estrae. E se non fosse per quella colla che gli sta paralizzando il cervello, e per quella vista abbagliata da filamenti elettrici, se non fosse che lei se ne sta a pochi centimetri da lui, sparpagliata, invitante, avrebbe già composto il numero d’emergenza. Sì ma anche volendo, non stanno fermi, cazzo! Numeri distorti che si muovono come vespe impazzite. Fa per afferrarli, maledetti tasti; sono alati, e puntuti. Zzz, zzz… la mano sull’orecchio: la agita, si schiaffeggia, si contorce in una danza scomposta dimenando braccia e gambe che paiono elettrificate dal terrore. Scosse, fremiti, una pressione sul petto. L’adrenalina se lo sta cuocendo a dovere, gli ha già afferrato il cuore e lo sta avviluppando nella morsa della morte.
   «Ahó! E dai, tirati su, nun fà ‘r matto…» Mirco lo afferra per un braccio ma lui, di colpo, si fa resistente.
   «Lassame, nun me toccà.»
   «La fai finita? Arzate, dai!»
   «Lassame, t’ho detto che nun me devi toccà!»
Resistente più che può, a costo di morire a causa di velenosi tasti numerici, perché lei è ancora lì, la vede splendere sui mattoni e pure tra le fughe. Spilli, tutti sulle guance che s’infiammano. Sotto la pelle c’è la vita, la sente formicolare come scossa insopportabile e allora resta a terra: la faccia sul pavimento, la bocca asciutta di un’arsura disumana. Esce la lingua che pare un cane assetato, se la passa sulle labbra e un rivolo di saliva gli cola sul mento. La struscia sui mattoni come fosse aspirapolvere impazzito, fino a tirarsi l’ultimo granello scintillante. La porosità della superficie si confonde con la polvere, ma a lui non frega niente, né della lordura, né dello sdegno. 
È fatta. Respira, ora. Un vigore tiepido scuote il corpo dal basso e finalmente si alza, lento. C’è vita sotto la pelle, c’è tutta la potenza di cui necessita per accordarsi con il mondo. Uno sguardo fulmineo sugli amici, il suono nitido delle loro voci. Nel raggio di pochi centimetri, riesce a cogliere ogni attimo che gli scorre davanti: la patta semi aperta di Mirco, la disposizione delle carte sul tavolo: le prime sei, coperte, le sue, sparpagliate, le altre… vincenti, pensa subito.
   «Sei contento, mo’ c’hai fatto ‘sta cazzata?» gli chiedono.
Ma lui non risponde, si è accorto dello specchio appeso storto all’ingresso e va per raddrizzarlo. Si ammira, stira un sorriso, ma la faccia si accartoccia all’istante. Vede punture: rosse, pruriginose. Si gratta. Prima una guancia, poi l’altra, e ora la fronte, le tempie, tutto si gratta, persino il collo. Rifiata. Un’ultima occhiata dubbiosa e si allunga verso l’angolo cottura, e l’andatura, passo dopo passo, si fa mogia che sembra la spina dorsale stia franando su se stessa. Lei era poca, ancora troppo poca. Punta il frigorifero, lo fissa.
   «Stava là, porco zio!» esclama. Quella puttana di una scimmia se ne stava appollaiata sul frigo e rideva di lui, prima; se n’era accorto mentre giaceva per terra e ora vuole spezzarle il collo, brutta bertuccia del cazzo, ma non la vede più. Gli amici sono intenti a finire la mano di poker e non gli rispondono, «Ahó! V’ho detto che ‘sta cazzo de scimmia stava là» ma loro niente, sembra non vedano l’ora di squagliarsela. «Annatevene affanculo, stava là, stava!». 
Una scossa gli raddrizza la postura; un fuoco ardente che parte dal basso, dove prima avvertiva il solletico di un mansueto vigore, e arriva sparato ai capelli, che li sente fumare, ribellarsi a quella flemma nostalgica che già gli stava pizzicando cuore e anima, da dentro, come un veleno inesorabile che l’avrebbe inchiodato al pianto. Si muove lesto e prende a setacciare il perimetro della stanza. Il fiato accelerato, il cervello sfatto, la saliva azzerata, i battiti; uno, tre, sette… È tutto straordinariamente potente adesso, i muscoli sono ferro, la colonna vertebrale è marmo e il fiato si infrange come onda violenta sul petto; nove, undici… sballano, saltano, quei battiti li sente in gola come cavalli imbizzarriti. Si ferma, rifiata. Scola sudore, scola pure il naso e l’asciuga come può, strusciandosi un lembo di camicia già fradicia sulla faccia. Aguzza lo sguardo e corre di nuovo verso l’angolo cottura, 
   «Do’ stai, maledetta!» si abbranca al frigorifero e lo scuote «Eh? Do’ cazzo stai, puttana!»
   «La pianti?» sbotta Mirco, che si alza dal tavolo e gli si avvicina.
   «Nun me toccà che t’ammazzo…»
Gli occhi slargati, vitrei. Shh! Fate silenzio, ché potrebbero ascoltare tutto. Tutto ascoltano, ci sono spie ovunque, stanno pure dietro la finestra. 
Si stacca dal frigo, si muove circospetto, si spiaccica sui vetri. Fuori è nero pesto, nemmeno un filo di luce che riesca a rassicurarlo. Niente potrebbe rassicurarlo quando sta così. Gli amici lo sanno e portano pazienza, ché è una di quelle sere, stasera, cominciata in relax e finita male, malissimo. Ha esagerato, come suo solito, e ha mandato tutto in vacca per meno di mezzo grammo finito accidentalmente per terra. Mirco si rimette seduto. Danilo sta spizzicando fra gli avanzi nei piatti accatastati in cucina. Come un gatto indiavolato, con un balzo si allontana dalla finestra e se ne resta impalato nel mezzo della stanza per qualche istante, poi, con la stessa repentinità, fa per avventarsi sul vassoio a specchio, scintillante anche quello.
   «Eh no!» fa Mirco, che non ha pace ed è costretto ad alzarsi di nuovo, «Basta! Mo’ ti metti seduto e la fai finita da rompe ‘r cazzo, per favore!» lo bracca dalla vita e riesce a scaraventarlo sul divano come un sacco di patate.
   «State annà via?» chiede agli amici, che lo osservano inerme e nemmeno gli rispondono. Con una punta di rabbia, si tirano la porta d’ingresso dietro le spalle.
 
 


Silenzio. Uno, due, tre… Ora i battiti si sono sgonfiati. Si preme le mani sul corpo, che al tatto è floscio anch’esso, sta evaporando in un bagno di sudore. La gola. Il canale del respiro è un pozzo corroso dal sole, abbandonato dalla vita. Muove la lingua in cerca di refrigerio. Il palato è escoriato dall’alcool e dalle notti ingoiate male. Silenzio, e buio. Il divano su cui è ancora spalmato si è sformato della sua mollezza. Muove lo sguardo: intorno a lui è tutto nero.
Dopo non resta niente. Se la sono pippata tutta e ora non gli resta niente. Nella gola, nel respiro, persino nelle ossa: involucri vuoti in cui rimbomba l’abbandono, uno sconforto straziante. Dopo è così, dopo si sente tradito, lasciato, trafitto soltanto dal silenzio. Shh! Forse le spie sono tornate e vogliono portarselo via, in galera, a marcire in quella cella un’altra volta. Zzz, zzz: nelle orecchie, ancora. E nella testa, nel buio.
Spinge un poco il corpo e riesce a mettersi in piedi. Vuole arrivare alla meta ma esegue una traiettoria sbilenca che lo manda alla deriva. Trascina i piedi in mezzo al buio scontrandosi con una sedia mal riposta, un pezzo di pane rimasto per terra, lo spigolo infame di un mobile. Attraversa l’aria ciondolando: un odore acido impregnato di fumo. Scorie di una serata cominciata bene e finita male; di questo è fatta la sua aria. Respira, lento, ammaccato di una malinconia insopportabile. Lei era poca, troppo poca per sentire la vita riempirgli il corpo «Annassero affanculo.» 
Ecco, all’ultimo è riuscito a virare e approda sull’anta a molla del pensile, in cucina. Gli basta una leggera pressione e quella si apre. Va a tentoni, agita le mani, ravana. Dal mobile cascano due, tre cianfrusaglie, «Ma porc…» non gliene frega un cazzo, vuole solo la dama e lei si fa trovare facile. 
L’attimo. Quello prima gli provoca il brivido giusto. Quattro, cinque, sette… il cuore si prepara al galoppo, tutto il corpo tende al desiderio. Per afferrare la pallina di Domopak, si allunga più che può e i pizzi della camicia strusciano contro la pila dei piatti sporchi nel lavello, «annassero affanculo, annassero!» e fanculo anche ai piatti incrostati, all’olezzo di una serata finita male, alle spie che lo osservano, alla scimmia che ride, cattura la dama e vuole solo preparare il corpo al brivido. 
Il naso cola; lo asciuga con quel che ha e si precipita sul tavolo. L’attimo. La stende sul vassoio. Sente i nervi pizzicargli l’anima, la lingua viva, le narici allargarsi, e la divide, veloce… tà tà tà tà tà, che già solo la frenesia di quel picchiettare lo eccita a dismisura, lo affanna, è sudato, voglioso. La pista è bellissima, purissima. Ecco e allora giù, con la testa affondata nella felicità, e poi su, ché il bruciore risale presto la corrente e gli esplode in mezzo agli occhi. Stelle. Tutto un meraviglioso cielo elettrico, il soffitto. Undici tredici quindici…  e andasse al diavolo pure il cuore, è la sua felicità, sono le sue cazzo di stelle quelle, è l’istante in cui ogni fibra depressa migra in energia. La vita, l’attimo che scuote quel che resta. E ora la musica. Un repentino giro di do, su cui danzano connessioni cerebrali.
   «Ecco do' stavi… Scenni! Maledetta puttana, scenni, t’ho detto!»
Shh! Adesso fate solo silenzio.
 

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