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Re: Kieltäymys

bwv582 ha scritto: dom mar 07, 2021 10:29 am Grazie a te che hai condiviso questo racconto, mi spiace che credo di non averlo assaporato a fondo, ma spero di averti dato un feedback utile. :eheh:
Utilissimo e apprezzato @bwv582 . E, en passan, laurea in matematica... chapeau

Re: Kieltäymys

@bwv582 ti ringrazio per esserti soffermato e aver analizzato i vari aspetti del racconto e, naturalmente, le indicazioni. Il racconto è un esercizio, un tentativo di mescolare Lovecraft con il Borges delle Inquisizioni. La tue osservazioni sui numeri primi sono pertinenti e corrette. Ho preso il 2 e il 3 e ho operato così:

- 3^2 - 2^2 = 9 - 4 = 5;
- 3^3 - 2^3 = 27 - 8 = 19;
- 3^4 - 2^4 = 81 - 16 = 65;
- 3^5 - 2^5 = 243 - 32 = 211;

Da cui abbiamo:
- 1670, base.
- 1670 + 5 = 1675.
- 1675 + 19 = 1694.
- 1694 + 65 = 1759.
- 1759 + 211 = 1970...

La causa della diversa interpretazione sta nell'ambiguità di quel pari grado che tu hai inteso come esponente pari... colpa mia ovviamente, di fatto sono un po' arrugginito e nel mio leggero bagaglio matematico si parla di grado quando si valutano monomi e polinomi in relazione ai loro esponenti, mentre io qui usavo in modo improprio l'espressione che avrei dovuto scrivere magari così: ovvero con le differenze degli esponenziali con esponenti uguali tra loro dei numeri tre e due... o qualcosa di simile... ma mi sembrava una tirata. Cosa proponi?

Ti ringrazio davvero molto
P.S. - Ringrazio anche @Kikki che ti ha tirato dentro.

Re: Kieltäymys

@Kikki sei stata preziosa, puntuale e acuta, come tuo solito. Ti ringrazio, apprezzo molto il brio costruttivo con cui offri sempre riflessioni utili. È un racconto che ho scritto... non ti dico l'anno, altrimenti capiresti che sono un boomer... :facepalm: ... e mentirei se ti dicessi cosa a quel tempo significava questa scelta lessicale Kieltäymys. Oggi vedo che potrebbe significare "abnegazione".
  • esso giusta osservazione, si riferisce al "monte Kieltäymys"; eliminerò l'ambiguita sostituendo "esso" con "le sue pendici"
  • Dipartimento di Storia dell’Università di Venezia: oscura implicazione; la fabula vorrebbe che il nostro protagonista abbia questo incarico (non si fa menzione da parte di chi all'inizio, in effetti); raggiunge la Conservatoria per analizzare il testo, ma poi il professor Ashford riesce a farsi accordare il permesso per prenderne visione, così temporaneamente il nostro protagonista la deve cedere; questo comporta qualche settimana di ritardo sul suo programma e anche la necessità di fermarsi più a lungo lassù... a spese dell'Università di Venezia.
  • temerarietà: meglio "di"
  • continuammo e caduta nel buio: Oops I did it again... ho tagliato. Il paragrafo originale era questo: "Dopo circa un’ora di cammino, lo speco diventò più angusto, un asfissiante cunicolo nelle fauci di un’immobile oscurità. Non sentivo più l’affievolito anelito d’aria che fin qui aveva ghermito la nostra discesa e con esso sembrò reciso l’ultimo legame con l’esterno, mentre il nostro cammino s’attorcigliava in involuzioni, in tortuosità strazianti. Il professor Ahford si era ora fermato ansimante, avvinto da un incontrollato tremore abbrancava l’ignoto. L’antro ora era pervaso da fetide esalazioni; mefiti e miasmi ci assalivano con acredine opprimente. Fu allora che mi avvicinai a lui e accostai la mia mano alla sua spalla per tranquillizzarlo, ma in quel mentre la follia ci trascinò nel baratro"
Davvero grazie @Kikki, ci rimetterò le mani considerando ogni tua segnalazione e consiglio. :sss:

Kieltäymys

Commento al racconto lungo di @Bef : Il quartiere che non c'era
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Kieltäymys

Perdetti allora più di una volta traccia della mia esistenza e il mio delirio prendeva forma di cifre, e queste cifre esprimevano dei numeri, delle proprietà ostili e malevole.

(Raymond Queneau, Odile)


Quando ricevetti la visita di Sir Rhodes Ashford, etnologo dell’Università di Cambridge, mi stavo occupando del restauro di un ex libraris, un’effemeride redatta dal 1094 e custodita presso la Conservatoria di Helsinki, chiamata Tapahtumat Kirja. Fu in quella circostanza che per la prima volta sentii parlare del monte Kieltäymys, prima, dunque, che la mia temperanza dovesse misurarsi con esso.

Sul Kieltäymys, nel 1670 una spedizione guidata del geologo Heinrich Gruber, con l’incarico di eseguire rilievi per conto della Shneider Forschung, scomparve; nel 1675, dal Kieltäymys, non fecero ritorno sette ricercatori del National History Musemum di Londra, né riapparve l’équipe che, nel 1694, aveva ricevuto dall’Université de Paris l’incarico di stilare una dettagliata mappatura dei corsi d’acqua e avviare un’accurata indagine orografica. Peter Løgen, nell’intento di raccogliere e catalogare minerali, si addentrò nel bosco di conifere che lambisce le pendici e, in alcuni anfratti, s’abbarbica alla montagna, senza mai rinvenire. Era il 1759.

Si cominciò in quegli anni a percepire l’esistenza d’uno schema. Congiuntura o nesso significante, infatti, gli intervalli di tempo con cui si susseguivano gli eventi intercorsi, collimavano con il risultato di un calcolo algebrico, ovvero con le differenze degli esponenziali di pari grado dei numeri tre e due.
Ma l’enigma dei numeri primi, rimase irrisolto, tanto più che nel 1970, seguendo la proiezione matematica, un’altra sparizione si sarebbe dovuta verificare e ciò non avvenne. Né defezioni, né insoliti accadimenti investirono il Kieltäymys, eccezion fatta per le abbondanti nevicate a bassa quota. La coincidenza cronologica sembrò, dunque, un’esuberanza di perspicacia.

Ad ogni modo, al nostro primo incontro, dopo essersi dilungato nel rendiconto delle spedizioni scomparse, il dottor Ashford mi rivelò che, mentre tutti avevano atteso il 1970 per dipanare un enigma incombente, egli era stato attratto dell’incompletezza di quell’epilogo e aveva dato inizio ad approfondite ricerche per scoprire se l’origine degli eventi non risalisse agli anni precedenti il 1670. Ora, per continuare nella sua indagine, il professore voleva consultare il Tapahtumat Kirjam e, poiché la Conservatoria gli aveva già accordato il permesso per la disamina, non ebbi nulla da obiettare e acconsentii senza perplessità.

Trascorsi alcune settimane svagato in lunghe passeggiate nei boschi, mentre il professor Ashford inquisiva i segreti del libro. Più volte dovetti sedare le rimostranze esternate dal Dipartimento di Storia dell’Università di Venezia, per le spese ulteriori che avrebbe dovuto sostenere a causa del mio ritardo, poi, in una sera d’inizio autunno, il professore mi raggiunse in albergo, portando con sé il libro. Con una certa riluttanza lo redarguii, per l’incuria con cui l’aveva sottratto alla Conservatoria, ma il mio monito venne sopraffatto dall’animosità che il professore non riusciva a dissimulare. In una concitazione affabile, rivelò che aveva bisogno del mio aiuto per una spedizione sul Kieltäymys. A nulla giovò che l’aggiornassi sulla mia imperizia in fatto d’escursioni. La mia riluttanza era del tutto trascurabile per il mio visitatore. Non riuscendogli, tuttavia, di persuadermi, mi chiese se avessi notato nulla d’insolito leggendo il libro.

La mia risposta fu deludente. Nel restauro di un libro, infatti, sono molti i dettagli che possono catturare l’attenzione, la fattura della pelle, il pregio della pergamena, l’intarsio delle incisioni, la salute del morso, il fregio della grafia, di rado, tuttavia, mi sono soffermato nella lettura attenta dei contenuti. Fu pertanto il professor Ashford a riferirmi ciò che l’aveva attratto.

Dopo aver a lungo esaminato gli accadimenti precedenti il 1670 senza risultato, il giorno prima era stato assalito dall’amarezza e della disperazione. In un mortificante imbarazzo mi confessò di aver diretto i suoi passi sin dentro la locanda che s’affacciava dall’altro lato della strada e di aver affogato i dispiaceri in una mistura di alcool ed erbe dall’aroma di resina, lasciandosi andare a sproloqui. Vedendolo dimenarsi a quel modo, e sentendolo ripetere più volte il nome Kieltäymys, l’uomo che lo stava servendo, con oltraggiosa ilarità, lo aveva paragonato a un tale Pit Shenkeng, che, prima di scomparire per sempre nel ventre della foresta, era solito affollare i discorsi d’incomprensibili presagi sulla montagna. L’indomani, il professore, aveva nuove rivelazioni su cui indagare. Mi spiegò di essere venuto a sapere che, nel 1970, aveva destato turbamento e curiosità un insolito avvenimento, apparentemente non correlato alla montagna.

Pit Shenkeng, giovane studente in matematica, si dilettava di cabala; di quest’ultima in particolare osservava la dinamica combinatoria. Secondo alcune testimonianze raccolte, in quell’anno, in un giorno d’inizio autunno, il giovane si era intrattenuto fino a tarda ora in biblioteca. Sul tavolo, non molto discosto, teneva aperto un quaderno con appunti di Gematria, in cui annotate si trovavano formule, tabelle e numeri. Era un altro però il libro su cui stava chinato, riconoscibile per le dimensioni e il dorso lavorato con foglia d’oro. Il Tapahtumat Kirja.

L’ultimo a vederlo era stato il custode della Conservatoria, situata nello stesso edificio della biblioteca, in un’ala parallela che guarda sullo stesso chiostro interno su cui s’affaccia la biblioteca, che, in verità, è un dipartimento dalla Conservatoria destinata al pubblico accesso.

Il custode sosteneva che il giovane studente, all’ora di chiusura, era stato dispensato dall’uscire e aveva ottenuto il permesso di spostarsi dalla Conservatoria alle stanze della biblioteca. I registri della Conservatoria, che scrupolosamente annotavano tutti gli spostamenti dei testi custoditi, comprovarono la testimonianza del custode. Questi sosteneva che il giovane s’era trattenuto per poco più di un’ora, poi aveva strappato e messa in tasca una pagina del suo quaderno e si era precipitato fuori, allontanandosi in direzione del bosco. Cosa avesse scoperto sul libro il giovane Shenkeng e quale oscura ragione l’avesse spinto a inoltrarsi nel bosco a tarda ora, nessuno se lo spiegava.

Il Professor Ashford sembrò raccogliersi in un riserbo assennato e tacque, fissandomi con un’espressione ponderante. Si riebbe quando intercalai a quell’indugio la domanda che doveva certamente attendersi. Gli chiesi dove fosse diretto Pit Shankeng. Il professore sfilò dal Tapahtumat Kirja un consunto ritaglio di carta e senz’altro proferire lo asservì al mio esame. Dei due lati, soltanto uno era stato usato per scriverci, o meglio, tratteggiarvi ciò che a prima vista sembrava essere il profilo d’una montagna, sovrapposta a una griglia in tre dimensioni. Su alcuni quadranti erano compilati dei numeri, di cui alcuni sembravano date, altri probabilmente si riferivano a distanza, altitudine e profondità. Ciò che stavo guardando era certamente una mappa.
Gli chiesi come fosse venuto in possesso di quel frammento. Dove l’avesse rinvenuto. Il professore ribadì che lo studente aveva tratto con sé una pagina strappata, ma aveva abbandonato il quaderno sul tavolo. Quel quaderno era stato catalogato e conservato tra gli incartamenti riguardanti il caso negli archivi della polizia e non era stato difficile chiederne visione. Il professore aveva dunque cercato la parte mancante e, una volta trovatala, aveva aperto il quaderno alla pagina successiva. Posandovi sopra un foglio di carta intonso e applicandovi una leggera pressione con una matita, aveva poi abbozzato dei tratti leggeri e uniformi e quello che aveva ottenuto era la sbiadita ma leggibile mappa che ora avevo dinanzi. Oggi sono persuaso che fu questa circostanza a infondermi la temerarietà per intraprendere quell’escursione notturna. Mi unii, dunque, al professore.

Il cammino attraverso il bosco non celò insidie. Un livido chiaro di luna penetrava nella foresta e rischiarava il pur impervio sentiero. Rapidamente raggiungemmo le pendici della montagna nel punto in cui la mappa ci aveva guidati e, tra gli arbusti, rinvenimmo l’accesso ad un antro buio da cui dipartiva un passaggio sotterraneo che sembrava scendere nel Kieltäymys. Senza esitazione ci addentrammo nel mistero. Il professor Ashford mi precedeva nella discesa di circa un metro. Potevo distinguerne la tremula ombra scivolare sulla volta levigata e madida. La sua incauta ostinazione era per me quasi intollerabile.

La macabra danza della luce sulle ci abbandonò dopo mezz’ora, per qualche strana ragione il carburo di calcio rimaneva incombusto e le nostre lampade si erano spente. Piombammo così nella cecità e la perdita d’orientamento acuì il freddo. Continuammo al buio, ma la grotta continuava a scendere sempre più ripida, scendeva fino al fondo delle nostre più riposte paure, nel ventre del Kieltäymys.

Dopo pochi minuti lo speco diventò più angusto, un asfissiante cunicolo nelle fauci di un’immobile oscurità. Il professor Ahford si fermò ansimante. L’antro ora era pervaso da fetide esalazioni. Fu allora che scivolammo nello schiumare del fango sotto i nostri piedi. Allungai le mani in cerca di appigli e vidi il professor Ashford venire inghiottito. Persi la presa, caddi e, iniziando a precipitare, svenni.

Mi ridestai in un androne avvolto in una semioscurità informe. Mi rizzai in piedi e con le gambe tremanti mi diressi verso ciò che m’appariva come uno spiraglio iridescente, un lume di speranza. Breve fu la via che mi condusse alla luce. Una fenditura nella roccia lasciava filtrare il nitore del giorno. Trascinandomi in un’incredula felicità, riemersi dagli abissi, lacero e immondo. Davanti a me s’apriva un’amena radura.

Il professor Ashford non rinvenne mai dal Kieltäymys. Con lui scomparve per sempre il Tapahtumat Kirja. La montagna racchiudeva un grembo carsico, mai prima d’allora esplorato, che si snodava in numerose ramificazioni e oggi è percorribile con le dovute cautele e accompagnati da speleologi esperti. Il ramo principale ci aveva guidato per un miglio, poi, presumibilmente eravamo scivolati in quella che oggi viene chiamata la Gola del Diavolo, un ripido canalone che si perde negli abissi e non è ancora stato interamente perlustrato. Il punto in cui io rinvenni è stato battezzato La Sala del Cieco.

Laggiù, ovunque si trovino quanti profanarono il Kieltäymys, nessuno è stato ancora. Nessuno osa violare ciò che la montagna nasconde, perché più temibile di una montagna di leggende, è la montagna che non ne ha.

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