Eva
Dai verbali del processo risultava che la quarta querelante avesse più di cinquemila anni, anche se il suo aspetto, per quanto segnato dai sacrifici e dal dolore, mostrasse un’altra immagine. Il vestito era formato da centinaia di dischetti –piccoli pomi rossi- legati da serpentelli verdi, e ricordava gli abiti beat degli anni ’70. Sotto, reggiseno e mutandina, erano in pura foglia di fico.
«Giura di dire la verità, tutta la verità, niente altro che la verità?»
«Lo giuro.»
«Dia le sue generalità per il verbale. Nome e cognome.»
«Eva.»
«Il suo cognome, prego.» la sollecitò il giudice.
«All’epoca non si usava e non serviva. Ero la prima donna.»
«La sua residenza?»
«Per un breve periodo il Paradiso Terrestre, ma sono alcune migliaia di anni che risiedo in un libro, il più famoso al mondo.»
«Vedo che la sua denuncia è contro ignoti.»
«Si, una denuncia per calunnie.»
«E quale sarebbe la calunnia?»
«Che io sia la causa del Peccato Originale.»
«Voi affermate che sia una notizia falsa?»
«Vostro Onore… io sono un personaggio e svolgo le azioni che l’autore ha deciso che io svolga. Non le decido io. Ma se veramente è esistita una donna di nome Eva, un uomo di nome Adamo e un Paradiso Terrestre chi ci dice che le cose siano andate come descritte nel Libro?»
«Non vi seguo. Dove volete arrivare con questo ragionamento?»
«Vorrei solo scoprire chi ha informato la stampa.»
«La stampa?!»
«Si, Vostro Onore. La stampa, i cronisti. Qualcuno… quello che ha descritto per la prima volta i fatti accaduti all’epoca: da chi ha avuto le informazioni?»
«Cioè, voi volete scoprire la fonte?»
«Si, la fonte. Veda, vostro onore, dopotutto… questo processo, tutte queste donne che hanno sporto denuncia per i trattamenti discriminatori o violenti, tutto questo macello… nasce dal quesito: chi è la fonte?
E, soprattutto… c’era una fonte?»
«Cioè, state dicendo che è anche possibile che sia…»
«… tutto falso, vostro onore. Per questo ho sporto denuncia contro ignoti.»
«Ma ci potranno essere stati testimoni al fatto che hanno…»
«Ecco, appunto. I testimoni. Chi è stato testimone dell’episodio della mela?»
«Mbé… eravate presenti lei, Adamo… Lui e il serpente.»
«Esatto! Ma ne io ne Adamo ne avremmo mai parlato con nessuno, non è che si sarebbe fatta una bella figura.
E poi… con chi ne potevamo parlare? C’eravamo solo noi.»
«Con i vostri figli.»
«E vi sembra una storia da raccontare ad un bambino che ha fame, sete, freddo e paura?
Scusami, Abele. Tu stai vivendo in questa valle di lacrime solo perché tua madre è curiosa come una scimmia.
Che poi, per la teoria dell’evoluzione darwiniana sarebbe pure corretto… ma vabbè, lasciamo perdere.
Allora ho tentato di contattare gli altri due possibili testimoni…»
«Contattare… come?»
«Al telefono! Il serpente è raggiungibile tramite un numero verde.»
«Che numero?»
«666 666 666. Ma non so se Vostro Onore sia mai entrato in uno di quei servizi di assistenza.
Se vuole maledire un parente: digiti uno.
Se vuole vendere l’anima al diavolo: digiti due.
Se si è pentito di essersi pentito: digiti 434. Un vero inferno.
E’ praticamente impossibile parlare con un operatore.
Anche Lui è praticamente impossibile da contattare.
Ha un numero verde, anzi, un numero celeste, ma risponde un messaggio registrato che dice: Per parlare con un operatore digiti: infinito.»
«Quindi non ha potuto verificare se uno di loro due era la fonte?»
«Non direttamente, ma poi, ripensandoci per millenni, li ho dovuti escludere tutti e due.
Ricordate la filastrocca: chi fa la spia non è figlio di Maria non è figlio di Gesù e quando muore va laggiù..? Questo esclude che Lui abbia spifferato tutto.
E il serpente?… ma vi figurate uno che da retta a quello che gli racconta un serpente? Che poi, povera bestia, anche lui è una vittima di tutta questa storia.»
«E allora, quali conclusioni bisogna trarre?»
«Che è tutto falso! Che io non sono colpevole di nessun peccato originale, che San Paolo, quando diceva “e non fu Adamo a essere ingannato, ma fu la donna che, ingannata, si rese colpevole di trasgressione” fu lui stesso ingannato.
E fu ingannato da un uomo.
Io me lo immagino questo tizio, rinchiuso nella sua cameretta, tutto impegnato a riflettere sulla condizione umana, sulla sua condizione.
Perché sicuramente stava messo male.
E doveva a tutti i costi trovare un colpevole.
E non è che ci fosse tutta questa scelta: il colpevole poteva essere o un uomo o una donna.
Ma se avesse detto che il colpevole era un uomo, gli altri uomini lo avrebbero riempito di botte, così ha detto che era una donna.
E per avvalorare la sua tesi e renderla inattaccabile, si è inventato che quello era il Verbo.
Ma la cosa pazzesca è che tutti gli altri uomini c’hanno creduto.
E per la teoria degli eventi consequenziali, era tutta colpa di Eva.
Mi ammazzo di lavoro? E’ colpa di Eva.
Invecchio e muoio? E’ colpa di Eva.
Patisco fame e malattie? E’ colpa di Eva.
A parte la pioggia, che è colpa del governo, tutto il resto è colpa di Eva.
Eva in quanto donna.
La colpa era della donna e la donna meritava la punizione. Quale punizione?!»
«Quale punizione?» chiese avido il giudice.
«Ma come, Vostro Onore, non lo sapete? Tutte!
Tutte quelle che l’uomo è riuscito ad inventare.
Tutto si poteva fare sul corpo o sull’animo di una donna, tutto era permesso, perché, comunque, mai nessuna pena sarebbe stata abbastanza grande per espiare la colpa di Eva.»
Le altre tre donne le si avvicinarono e, dopo aver tolto le scarpe rosse che avevano indossato lasciandole sotto al banco del giudice, iniziarono a parlare.
«Ci potevano discriminare, segregare, isolare dalla realtà.» disse la Bella Addormentata.
«Ci potevano far diventare un oggetto, una loro proprietà.» disse Beatrice.
«Ci potevano opprimere, maltrattare, tormentare.» disse Penelope.
Poi, tutte e quatto, in coro:
«Ci potevano fare qualsiasi cosa, perché, se non piove, è colpa di Eva, di Alice, di Patrizia, di Francesca...»
Una signora, che era seduta in terza fila, si tolse le scarpe rosse, si avvicinò alle quattro donne e aggiunse: «È colpa di Maria…» e poggiò le scarpe a terra. Un’altra donna fece lo stesso: «È colpa di Roberta…,» e poi un’altra. «…di Anna…,» e un’altra ancora. «…di Lucia…,»
Il giudice chiuse i faldoni e, mentre il corteo femminile continuava a riempire l’aula dei propri nomi «…di Fabiola…,» e delle proprie scarpe «…di Cristina…», si avviò lentamente verso l’uscita. Evitò le decine di calzature scarlatte lasciate sul pavimento, gli scatoloni appoggiati sulla parete, retaggio di una scossa che sette anni prima, nell’entroterra abruzzese, aveva reso parzialmente inagibile l’archivio, e spense le luci.