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Re: [CDP1] La Stanza

Ciao a tutti e grazie mille per i commenti gentili e super costruttivi. 
Premetto che mi sono accorto molto in ritardo che la data di consegna era per il 14 e non per il 18 quindi ho dovuto chiudere un po' di fretta per inviare in tempo. 

Concordo in parte sull'approccio inverosimile dei genitori. Inizialmente volevo che ci fosse un bagno nella stanza con un lavandino, utilizzato da Adele per lavarsi senza uscire dalla stanza. Poi però ho optato per il secchio perché ho pensato che avrebbe ingannato di più il lettore sul doppio senso della prigionia di Adele. 

Per quanto riguarda il messaggio dell'amica, mi sembra un ottimo punto. Non ci avevo riflettuto abbastanza. Probabilmente basta solo riscriverlo. Potrebbe essere il compleanno di Adele, che darebbe una motivazione in più a Chiara per scriverle, e magari anche ad Adele per il gesto finale. 
D'altronde una delle cose a cui non ho dato risposta è il perché Adele decida di fare quella determinata scelta in quel determinato momento. 

Riguardo appunto il gesto finale, nella mia idea originale ci sarebbe dovuto essere uno sviluppo un pelo più articolato ma alla fine per mancanza di tempo e anche di ispirazione ho deciso di chiudere forse in maniera troppo sbrigativa, ma cercando di metterci un po' di poesia per bilanciare. 

Grazie di nuovo a tutti. Piano piano cercherò di leggere anche i vostri racconti! 

[CDP1] La Stanza

Traccia N1. Passaggio da persona libera a reclusa o viceversa. 

Letto, muro, pavimento. Porta, scrivania, sedia. Comodino, soffitto, finestra. 
Questo era tutto quello che Adele riusciva a vedere. Seduta sul pavimento, in un angolo della stanza, si nascondeva dal fascio di luce che dalla finestra tagliava in due la sua prigione. Non vedeva altro da molto tempo, e anche il tempo si era sfaldato, aveva riscoperto una dimensione primordiale. Ormai si trovava nella lunghezza di unghie e capelli, si odorava sulla pelle, sui vestiti da cambiare, si leggeva nei disegni che il sudore macchiava sulle lenzuola. Non era più tempo matematico, era tempo organico, scandito dal cuore e dal ventre.  Anche i ricordi si sgretolavano. Le voci si impastavano, i volti si trasformavano in grumi informi di sguardi taglienti ed occhi bassi. Il viso di sua madre si mescolava a quello di Chiara, la sua migliore amica. La voce di suo padre si faceva lontana, perdeva intensità a furia di cercarla. Si era indebolita fin quasi a sparire. 

Ogni notte Adele sognava di uscire da quella stanza, di evadere in punta di piedi, attraversare il corridoio, scendere in silenzio le scale e uscire finalmente in strada. Avrebbe fatto una piroetta e camminato in equilibrio sul bordo del marciapiede. Avrebbe osservato le persone in ritardo, annusato dei fiori, mangiato su di una panchina, chiacchierato con degli sconosciuti. Si immaginava chinata negli angoli della città ad accarezzare dei gatti che facevano le fusa.  Ma questi sogni erano un conforto effimero, come un tiro di sigaretta rubato a qualcuno. Come una fetta di torta mangiata con distrazione, che all’ultimo morso hai già scordato il primo. 

In realtà un gatto ormai lo aveva. Il gatto che i suoi genitori non le avevano mai regalato. Il gatto che la sua amica Chiara aveva e lei no. Il gatto per cui aveva pianto isterica per giorni. Salem, il gatto di Sabrina vita da strega. La sua serie preferita di quando era bambina. Quel gatto era li, steso sul letto, che la guardava con gli occhi a fessura, come se cercasse in lei qualche tipo di reazione. Gli occhi di un giallo crudo. Il pelo nero, lucido, unto al punto giusto. Lo sguardo ipnotico, sadico.  Adele lo sapeva che quel gatto non poteva essere reale, ma ci si era lentamente abituata, l’aveva accettato. Aveva deciso che avere un gatto come allucinazione non era niente male. 

Ogni sera le portavano del cibo. I piatti erano sempre i suoi preferiti, li mangiava da quando era bambina. La pasta con il ragù, il risotto ai funghi, i cordon bleau bruciacchiati, la macedonia senza banane.  Quando venivano, Adele era ancora sveglia, rintanata sotto le coperte, e li guardava con gli occhi socchiusi, fingendo di dormire. Li sentiva confabulare tra loro, e a volte dicevano il suo nome. Adele. Nome che ormai non sentiva più come suo. A'dɛle. La rappresentazione grafica di una sé stessa estinta. A'dɛle. Un suono solamente malinconico. 
Salem correva verso le due figure sperando di racimolare qualcosa, ma loro lo ignoravano, trascinavano il carrellino con il cibo nella stanza e se ne andavano poco dopo, portando con sé, nel ridicolo e sgradevole cigolio della porta, tutte le speranze di Adele.  
Ogni tre o quattro giorni, sempre verso sera, le portavano anche un cambio di vestiti e un piccolo secchio d’acqua con una spugna.  Capitava che Adele non avesse voglia di lavarsi e metteva i nuovi vestiti sul corpo rancido. Il gatto la guardava schifato, ma si abituava presto e le si acciambellava nuovamente sulla pancia. “ Dovresti lavarti via quella puzza”. Le diceva.  Potevano passare anche settimane prima che si lavasse nuovamente. In ogni caso si premurava sempre di smuovere l’acqua nel catino e di inzupparci qualcosa di sporco, per il timore che vedendo l’acqua intonsa, l’avrebbero costretta a lavarsi. 

La stanza aveva un unica finestra, come un occhio che la fissasse dall’esterno. Come se il mondo che le era precluso si divertisse ad osservarla, con quei fasci di luce indagatori che frugavano nella sua prigionia. Che scandagliavano la stanza come fari, a illuminare cose che sarebbero potute rimanere nascoste. 

Poi all’improvviso si era illuminato lo schermo del computer. Adele si era alzata per leggere il messaggio. “Come stai Adele? Ti va di uscire? Oppure posso passare a salutarti?” Il cuore di Adele perse un battito. Fortunatamente aveva tolto la spunta. Chiara non si sarebbe accorta che aveva letto il messaggio. Chiuse la chat con un click, e ritornò nell’angolo sicuro della stanza. La stanza da cui non usciva volontariamente da almeno tre anni. La prigione che si era autocostruita e di cui i genitori erano diventati involontari carcerieri. 

Il gatto la squadrò malamente: “Dovresti risponderle, ti è stata sempre vicino. Perchè non le vuoi nemmeno parlare?”  Adele non rispose, pensando che il gatto non avrebbe compreso il concetto di inadeguatezza. Nel suo angolo in penombra tornò a rintanarsi in qualche ricordo della sua infanzia, ma il sole si stava lentamente avvicinando al suo nascondiglio. La luce ormai frugava sul letto e sul muro, rivelando delle fotografie appese con del nastro adesivo colorato. All’interno di ognuna vi si poteva leggere un pezzo di vita di Adele. Da quanto era bambina a quando si era fatta grande. I genitori, i primi amici, le prime cotte. Alcuni dei volti erano cancellati, ritagliati, modificati, cadevano a pezzi, come i suoi ricordi. 

Il fascio di luce l’aveva infine raggiunta e iniziò a scavarle negli occhi. In quegli occhi verdi, giovani, stanchi. Adele pensò che volesse penetrarle l’anima. Quindi si alzò, ormai disturbata, e si avvicinò alla finestra per aprirla, come aveva chiesto il gatto.  
Subito Salem balzò sul davanzale, poi sull’albero, e si calo’ giù fin sulla strada. 
Sembrava felice, libero di girovagare per il quartiere. Il sole che gli risplendeva sul pelo. 

Adele d’istinto lo seguì. 

La strada, dei fiori, sua madre. Un albero, il cielo, un gatto. Questo era tutto quello che Adele riusciva a vedere. Distesa sul marciapiede, sembrava sorridere.  Facendo le fusa Salem le si accoccolò sul ventre. La coda irrequieta si calmò.

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