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Re: [Lab6] Sete

Grazie a tutti per i commenti positivi, è la prima volta che un mio racconto fila (tutto sommato) liscio e ammetto che mi sono un po' emozionata. Non che il successivo non possa fare schifo, ma proprio per questo mi godo il momento per ricordarmi che ce la posso fare  :D
Scherzi a parte, @Adel J. Pellitteri@bestseller2020 mi annoto le correzioni che mi avete fatto, sempre utili e apprezzate. 
Poeta Zaza ha scritto: L'incipit non segue la cronologia della narrazione, ma neppure la fine, essendo uno dei tanti, infiniti risvegli di un uomo che cerca il suicidio senza riuscire e spegnere la sete del suo rimorso.
@Poeta Zaza il tuo commento da solo vale quanto un racconto, poeta di nome e di fatto. Mi sono commossa.

Come qualcuno mi aveva chiesto, sì confermo, è il primo racconto che pubblico qui su CdM. Ne avevo pubblicati alcuni qualche anno fa sul vecchio Writer's Dream, ma pochi e per poco.

@Nightafter@@Monica  come giustamente segnalate, l'idea del loop non è troppo originale, ma mi fa piacere che sia risultato godibile lo stesso. Quello dello scrivere un racconto sul loop era un piccolo sfizio che volevo togliermi da tempo

Re: [Lab6] Sete

L'autoanalisi delle mie scelte si sta rivelando più impegnativa di quello che pensassi. Sono qui che scrivo e cancello senza decidermi ad inviare   :facepalm:
Ci riprovo.
Il racconto in verità l'ho scritto prima di redigere la sinossi, anche se a conti fatti me ne sono pentita: la prossima volta proverò sicuramente a fare il contrario, perché mi sono resa conto che ho preso la sinossi troppo sottogamba e che invece è un bel esercizio, permette di organizzare i pensieri e partire in maniera diversa dal solito. 
Come anche @Mina mi aveva suggerito, la narrazione non parte dall'inizio, ma a fatti (l'omicidio, il vero incipit) avvenuti. Fabula e intreccio non coincidono, insomma. Mi piaceva l'idea di rivelare la vicenda poco per volta, accompagnando il personaggio nella sua confusione e nel suo vagabondare, partecipando insomma almeno in parte al suo stato mentale. Infatti il racconto finisce per concentrarsi proprio su questo e non tanto sulla vicenda in sé. Non viene spiegato che relazione avesse con Gloria, perché l'abbia uccisa, chi fosse Febo al di là dell'omicidio. Non lo spiego perché per me non è lo scopo del racconto e quindi non lo percepisco come importante.
Il finale è volutamente aperto e interpretativo, si suggerisce che il protagonista sia dentro un loop, ma non viene spiegato oltre. Sarà bloccato dentro la sua mente? Sarà impazzito per il senso di colpa? Sarà la punizione da lui ricevuta all'inferno? Sarà davvero lui che continua a suicidarsi senza riuscirci?  Mi piaceva l'idea di lasciare un tocco di... misticismo? (non mi viene in mente una parola migliore).

Una cosa che potrebbe suscitare curiosità è la scelta del nome "Febo", o almeno un amico che ha letto il racconto me l'ha fatto notare, chiedendomi perché proprio questo nome. Ho dovuto deluderlo, non c'è un vero perché. O meglio, c'è, ma si tratta di un giro mentale troppo personale e non mi aspetto che lo faccia il lettore. Ovvero: Febo=dio splendente, dio della luce, del sole=sole=arido=sete. Colpa di Notre-Dame de Paris, per chi ha sentito il musical... "Febo è bello come il sole..."   :...: 
Avevo anche pensato di cambiargli nome, ma non so, mi piace troppo.

[Lab6] Sete

[Lab6] Sete 

   Gli venne in mente la noce di cocco che aveva martellato ripetutamente sulla soglia della terrazza. Ciò che provava era simile: una testa pronta a spaccarsi. 
   Gemette qualcosa di incomprensibile, cercando di aprire gli occhi. Poi gemette ancora e cercò nuovamente di aprirli. Il dolore si allargò a cerchi concentrici.
   - Si sta svegliando, - sentì una voce femminile. 
   Suonava in qualche modo professionale e troppo alta. Anche se stava sussurrando, era troppo alta lo stesso.
   - Non si sforzi, è ancora debole. Vedrà che si rimetterà in fretta.
   Dopo un’altra serie di gemiti e di tentativi di aprire gli occhi, infine ci riuscì. Sbatté in fretta le palpebre, storcendo le labbra: la luce era troppo forte.
   - Che è successo? - mugugnò con voce impastata; la lingua era così gonfia da occupare metà palato.
   - Lei… si tratta di intossicazione. Ormai è fuori pericolo.
   Lasciò stare le palpebre e le richiuse. Voleva solo che le tempie smettessero di pulsare. Cercò di addormentarsi.
   Il sonno non durò a lungo: un incubo lo riportò in superficie. Aveva una sete tremenda, ma stavolta non c’erano né infermieri né medici a tenerlo d’occhio. Si mise cautamente a sedere, guardandosi intorno.
   Era da solo in quella stanza: un letto d’ospedale, mura sterili, tende incolore, macchinari spenti. Provò a chiamare, ma la gola irritata si ribellò con uno scoppio di tosse. Gli sembrò di ingoiare dei tizzoni ardenti giù in crepacci inariditi da mesi di siccità. Aveva bisogno di acqua e subito.
   Si alzò barcollando, sbatté con rabbia i cassetti vuoti di un armadietto, frugò in giro senza trovare nulla e uscì in corridoio. 
   Non si trovava in una clinica. Dalla nebbia dei suoi pensieri emerse un ricordo. Quella a sinistra era la porta dell’anagrafe, più avanti c’era l’ufficio dell’assessore alla cultura, in fondo la biblioteca. Era stato abbandonato nell'infermeria del loro municipio. Fece una smorfia: non meritava il ricovero in un ospedale serio? Quel pensiero gli diede una fitta in mezzo al già atroce mal di testa, tanto da costringerlo ad accucciarsi di fianco al vaso di ficus. Affondò le dita tra i capelli e strinse le tempie, cercando di contenere le pulsazioni. Forse era solo troppo grave per essere portato altrove.
   - Che ci fai qui, Febo? - la sorpresa nella voce dello sconosciuto venne presto sostituita dalla rabbia, - porca miseria, è vero quello che dicono?
   L’uomo, che a quanto pare si chiamava Febo, guardò in alto dalla sua posizione accovacciata. Sapeva di conoscere la persona di fronte a sé, ma non si ricordava chi fosse. Sapeva anche di costituire una visione alquanto pietosa; avrebbe dovuto sentirsi umiliato, ma aveva troppa sete per pensarci.
   - Se… senti… dammi… - blaterò con la bocca riarsa.
   - Santo cielo, chiamo qualcuno!
   “Aspetta”, voleva dire Febo, ma rischiò un nuovo attacco di tosse e si limitò ad imprecare in silenzio. Ad ogni modo non aveva intenzione di aspettare: gli era appena tornato in mente che nella piazzetta di fronte al municipio c’era una piccola fontana. Potabile o meno, gliene fregava un accidente.
   Quando riuscì ad arrivarci, bevve fino a gonfiarsi lo stomaco ai limiti del sopportabile, con l’organismo che continuava a chiedere acqua, ancora e ancora. Appoggiato ad un muretto, aspettò che cominciasse a scorrere lungo le vene per poterne bere altra. Si guardò intorno. Una vecchia sulla sedia a rotelle lo stava fissando dall’altro lato del piazzale, la pelle grinzosa ricoperta di nei e gli occhi sgranati. Afferrò per il braccio la badante che stava leggendo un libricino sulla panchina, indicò Febo e sibilò la parola “assassino”.
   - Assassino, - ripetè più forte. 
   La badante si tolse gli occhiali e scattò in piedi.
   - Assassino! - raschiò la voce della vecchia, come in un incubo, mentre le ruote della sua sedia stridevano sull’asfalto.
   - Non dovere, siniora, non dovere, - fu l’ultimo eco che Febo udì mentre svanivano, - zitta voi, zitta!
   L’uomo fece scricchiolare i denti contro la mascella serrata. L’aveva fatto incazzare. Che vecchia stronza.
   - E’ solo tocca, - biascicò annaspando di nuovo nell’acqua della fontana, - matta come un cavallo.
   Doveva tornare a casa? Dov’era casa sua?
   Barcollò per la piazzetta, seguendo un sottile senso di familiarità e di angoscia. Quando il suo focus si centrò su un condominio arancione, pur senza sapere come, capì che era il posto giusto. Viveva lì. 
   Le gambe si fecero di piombo. Non voleva entrare. La gola bruciava più di prima.
   - Al diavolo, - biascicò; avrebbe sputato per terra se avesse potuto, ma non voleva sprecare saliva, - che vada tutto al diavolo.
   Staccò da terra un piede, spinse il polpaccio in avanti, si costrinse a seguirlo. Premendo la fronte contro il vetro del portone, con le dita gonfie si tastò le tasche dei pantaloni. Non c’era nessuna chiave.
   - Andate al diavolo tutti.
   Dall’interno si sentì il “din-don” dell’ascensore. Poi il ticchettio dei tacchi e infine la corrente elettrica interrotta dal tasto di apertura. Il peso dell’uomo fece scivolare la porta in avanti. Febo entrò e d’inerzia raggiunse l’elevatore appena liberato. Mentre le due porte automatiche si richiudevano, nella sua visuale finì il volto della donna ancora in corridoio. Era rimasta inchiodata sul posto. Pallida. Gli occhi spalancati per il terrore. 
   Febo sbatté il pugno sui bottoni per accelerare la salita, ma l’espressione della donna ce l’aveva incollata lì, dietro alle palpebre.
   - Puttana, - ringhiò, continuando a colpire il pannello, - muoviti!
   Il piazzale del secondo piano era deserto. Non ci fu bisogno di inventarsi un modo per entrare in appartamento: la porta era scardinata, come se qualcuno l’avesse buttata giù a forza entrando d’emergenza. Un odore metallico riempiva l’aria, dolce e rugginoso. Era nauseabondo.
   Non sarebbe riuscito a fermarsi neppure se l’avesse desiderato. A spingerlo in avanti non era la sua volontà, era una necessità più morbosa. Di finirla. Di sapere. Di vedere.
   “Ma tu lo sai già”, tintinnò nel suo orecchio.
    Varcando la soglia, il fetore gli punse il naso, contraendo in uno spasmo lo stomaco. Si premette le mani contro la bocca, nel tentativo di preservare l’acqua che aveva bevuto a fatica, ma la vomitò insieme al resto del contenuto: giallo, acido, vuoto. Merda, pensò picchiando con la spalla contro un angolo. Merda, merda, mentre i conati gli rivoltavano i visceri ancora e ancora. La testa gli girava. Aveva bisogno di liquidi.
   Scivolò su qualcosa e sbatté il cranio contro il pavimento. Il colpo fu attutito da un qualche tipo di melma. Il sentore metallico gli penetrò con prepotenza dentro le narici. Come uno schiaffo, Febo riacquisì lucidità. La sua guancia era affondata in una poltiglia rossa. Sangue. Brandelli di carne. Schegge d’osso.
   Di fronte a lui un martello era abbandonato a terra. Il martello con cui spaccava le noci di cocco. Con cui aveva spaccato Gloria. 
   Scrash.
   Era stato meno difficile del previsto.
   Febo scattò a sedere e indietreggiò, strisciando, verso il muro. Si portò le mani tremanti verso il viso, si premette le dita contro gli occhi.
   - Gloria, - singhiozzò sbattendo la lingua tumida contro il palato; non aveva abbastanza spazio in bocca per articolare le parole, - Gloriaaa… - riuscì ad ululare lo stesso.
   Perché lo aveva fatto? Perché? Perché cazzo lo aveva fatto?
   “Perché?” ridevano le voci oltre il suo campo visivo.
   Dondolò su e giù, sbattendo la schiena e la nuca ancora e ancora contro la parete. Non era niente. Non era niente se paragonato al dolore che lo stava divorando da dentro. Insostenibile. 
   Si trascinò verso il comodino. Estrasse compulsivamente dal cassetto gli antistaminici, gli antidepressivi, e tutto il resto dei farmaci che fu in grado di trovare.
   - Dai, - gemette, - su. Ti prego.
   A fatica li estrasse dalle confezioni, ma non riusciva ad ingoiarli. Le sue mucose erano aride quanto i canali lacrimogeni. Li masticò uno ad uno, se ne impastò la bocca. Con impazienza, scosso dai brividi, li mandò giù.
   - Gloria…


   “Ti stai svegliando?” tintinnò nel suo orecchio.
   - Si sta svegliando, - sentì una voce femminile. 
   Lo aveva detto sussurrando, ma rimbombò comunque all’interno della sua scatola cranica. Febo cercò di sollevare le palpebre. Ci provò un paio di volte, senza successo. Era troppo faticoso.
   - Non si sforzi, è ancora debole. Vedrà che si rimetterà in fretta.
   “In fretta, fai in fretta”, ridacchiarono da qualche parte.
   - Che è successo? 
   L’uomo aveva la voce impastata; la lingua non gli obbediva più di tanto.
   - Lei… si tratta di intossicazione. Ormai è fuori pericolo.
   Non ebbe la forza di contraddirla, voleva solo che le tempie smettessero di pulsare. Sarebbe stato bello tuffarsi negli abissi dell’oblio, tuttavia il sonno non durò a lungo: un incubo lo riportò in superficie. 
   Un incubo…
   Finalmente fu in grado di aprire gli occhi. Era solo. La gola irritata si ribellò con uno scoppio di tosse quando tentò di chiamare qualcuno. Aveva una sete terribile.
   Intorno a lui c’era solo un letto d’infermeria, mura sterili, tende incolore, macchinari spenti.
   Di nuovo.
   Tutto da capo.

Re: [Slab6] Sete

Poldo ha scritto: Ok @Canis, abile arruolato.
 Grazie!  :yahoo:
Mina ha scritto: Qui dici: Quindi è la narrazione che si sposta? Il primo evento del racconto effettivo sarà l'omicidio? Secondo me potrebbe funzionare meglio se il racconto si aprisse col risveglio di Febo in infermeria. 
@Mina in effetti non idea del perché io abbia usato quell'espressione, dato che il racconto inizia esattamente dove mi hai suggerito: con il risveglio in infermeria. Immagino che sforzarmi di scrivere una sinossi in ordine cronologico (come giustamente hai notato, secondo l'ordine della fabula) mi abbia fatto partire una narrazione parallela...


Grazie tantissime ad entrambi (@bestseller2020) dei commenti! Spunti preziosi con cui andare a rivedere il racconto. Perché sì, è un po' barato: il racconto c'è già. E' "inedito" (non l'ho ancora fatto leggere a nessuno) ed l'ultimo che ho scritto, avevo intenzione di postarlo semplicemente nella sezione Racconti, ma per puro caso si presta a meraviglia per il tema "Risvegli", per cui ho deciso di usarlo per il contest

Re: [Slab6] Sete

Mi aggiungo anche io al contest... sperando di aver capito bene e che sia il modo giusto per intrufolarmi   :hm:
Abbiate pietà di me se ho appena commesso uno strafalcione

[Slab6] Sete

   Al centro della storia c’è una tragedia: un uomo di nome Febo uccide la propria compagna, Gloria, spaccandole il cranio con un martello, dopodiché si suicida ingerendo tutti i farmaci che riesce a trovare nel cassetto di casa.
   La narrazione si sposta quindi in un'infermeria, dove Febo si risveglia senza ricordare nulla, se non stralci di sensazioni e visioni confuse. Ha un forte mal di testa e una sete terribile. Seguiamo il suo vagare disorientato che lo riporta inconsciamente al luogo del delitto, dove infine i ricordi dell’omicidio commesso tornano con prepotenza a galla. Incapace di reggere la colpa, rovista nei cassetti alla ricerca di farmaci per porre fine alle proprie sofferenze.
   Si sveglia nuovamente in infermeria, senza ricordi e con solo sussurri angoscianti in testa. E così via, in un loop infinito in cui suo malgrado si ritrova bloccato. 
(Si tratta dell’inferno? Chi lo sà, il finale rimane aperto).

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