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Re: [N2022R] Le streghe del Massachusetts

bestseller2020 ha scritto: ven dic 30, 2022 5:51 pmIn realtà non si coglie questo parallelo di vita: me lo spieghi, dato che non l'ho colto io?
Non solo tu. Almeno altri due commenti, mi pare, hanno evidenziato questo aspetto. Serve qualche frasetta in più, evidentemente, per legare meglio le loro due storie. Non dico che ci fossero, le frasette, ma nel momento in cui ho cominciato a tagliare a testa bassa per rientrare nei caratteri non mi sono preoccupato più di tanto, dando per scontato che l'operazione non sarebbe stata indolore e priva di conseguenze. Se ci rimetto mano, curerò senz'altro meglio il passaggio.
bestseller2020 ha scritto: ven dic 30, 2022 5:51 pmNon capisco il perché, Owen, dato che appare un uomo violento e forte, rimanga inerme sul letto  e si lasci sparare sui piedi. Eppure non pare che dormisse..
Quando cito "l'essere dentro il suo corpo" intendo la creatura che lo possiede. Asp, ti riporto il passaggio originale, cioè come mi era uscito prima dei tagli.

      [font="Times New Roman", serif]Così mi alzai, aprii l’armadietto dove teneva le armi, presi il fucile, lo caricai e salii al piano di sopra. Accesi la luce, sapevo che l’essere dentro il suo corpo ormai da molti anni, era andato in quell’altro mondo da cui proveniva e aveva lasciato lì Owen come una vecchia automobile parcheggiata all’aeroporto. Vidi gli occhi aperti, come due animaletti nervosi e impauriti. Alzai il fucile e appoggiai la canna ai piedi nudi. Lui seguì il movimento con apprensione. Tirare il grilletto mi costò uno sforzo enorme. Il boato fu spaventoso e il contraccolpo mi mandò a sbattere contro l’armadio. Quando il lampo e il fumo si furono dissipati, i piedi non c’erano più, soltanto una gran chiazza rossa sul letto e minuscoli frammenti e brandelli sparsi qua e là. Gli occhi di Owen erano strabuzzati, ma dalla bocca non emise suono. Quello che restava dell’uomo che avevo sposato doveva aver perso da tempo qualsiasi possibilità di governo sul proprio corpo.[/font]
bestseller2020 ha scritto: ven dic 30, 2022 5:51 pmTanti pareri discordanti e altri concordanti. Sembra una cronaca che lui ha ben presente già a partire dagli anni passati. Infatti, decide di non scrivere niente. Insomma, quale è il tassello che manca? Ciao Roberto
Forse non c'è, per come lo intendi. Cioè, lo scopo era proprio quello. Il momento in cui Loulou uccide Owen, non sono io a raccontartelo, ma è lei stessa attraverso l'evocazione registrata da sua figlia. Se te lo raccontassi io, in terza persona, sarei obbligato a dire la verità perché fa parte del codice deontologico dello scrittore, ma io ti racconto di lei che racconta, e quindi esiste la possibilità che lei stia raccontando quello che le fa comodo. Quando il giornalista scopre ciò che lei presumibilmente ha fatto a Magda Foley (il passaggio è stringato, lo so, ma la sua plausibilità è data dal fatto che lui aveva già intuito qualcosa nell'espressione di Christopher Mason, e quindi ci crede, per riscontro e istinto del giornalista) intuisce che Loulou forse non è la vittima che credeva. Per questo lascia perdere tutto.
Noi, che non siamo giornalisti e non abbiamo guardato negli occhi i testimoni della vicenda, rimaniamo in balia dei racconti altrui. Dov'è la verità? Non lo possiamo sapere, e la battuta finale è praticamente la sintesi di questa incertezza (che poi è la stessa che proviamo tutti i giorni davanti ai notiziari, anche se ormai gli esperti di Ucraina e globalizzazione e intrighi internazionali vari spergiurano di sapere tutto di tutto).

Grazie della lettura e delle belle domande, Best. Alla prossima.
Ps. Ora che so che combina Babbo Natale con le emorroidi, col cazzo che apro i regali!  :D

Re: [N2022R] Le streghe del Massachusetts

Ippolita ha scritto: mer dic 28, 2022 8:51 pmSo che non li ami, ma mi permetto egualmente qualche piccolo suggerimento
@Ippolita Ahahah, ma che brutta reputazione mi sono fatto. No, dai, mi puoi dare tutti i suggerimenti che vuoi. Ho ricevuto le dovute segnalazioni per un paio di sviste piuttosto importanti e quindi ben vengano i suggerimenti, anche se della tua attenzione non avrei mai dubitato. Grazie del passaggio, Ippolita.  :flower:

Re: [N2022R] Le streghe del Massachusetts

Nightafter ha scritto: mer dic 28, 2022 10:27 pmla scelta stilistica porta immediatamente a rammentare la scrittura di James Ellroy,
@Nightafter Ellroy! La dalia nera, Il sangue è randagio, Le strade dell'innocenza, Los Angeles strettamente riservato... Il mio lato nerd si commuove <3 Questo sì che è un complimento! Grazie del bel commento, Night. Molto gratificante. Ciao!

Re: [N2022R] Le streghe del Massachusetts

@Kasimiro 
Kasimiro ha scritto: mar dic 27, 2022 10:12 amUna cosa che mi sembra ti veda d'accordo è che avrebbe avuto bisogno di più ampio respiro una storia del genere. Si percepisce che è stata compressa e la struttura inevitabilmente appare spezzata.
Sì, certo. Finita la prima stesura e controllati i caratteri ho cominciato a dubitare che sarei riuscito a cavarci qualcosa in quel limite, ma ormai non c'era tempo per scrivere qualcos'altro e quindi ho cominciato a tagliare gradualmente fino a mantenere all'osso non dico le cose essenziali allo sviluppo, che certo un editor ragionerebbe in modo diverso, ma quelle che a me stuzzicavano di più.
Kasimiro ha scritto: mar dic 27, 2022 10:12 amIl finale mi ha sorpreso, amarissimo.
Il finale è stato il punto di partenza, cioè l'idea attorno alla quale ho sviluppato il contesto, e anche la parte che a me dice di più.
Kasimiro ha scritto: mar dic 27, 2022 10:12 amUna curiosità: la madre di Magda Foley, che accoglie il giornalista, quanti anni doveva avere, se la figlia è coetanea di Loulou che è morta a settantasei anni? 
Bella osservazione. Mi ero fatto uno specchietto con le relazioni di età tra Magda, Loulou, Greta e il protagonista. La madre di Magda mi è sfuggita, e il conto in effetti non torna. Mi sa che da madre dovrà diventare sorella.

Grazie per la lettura molto attenta. Ci risentiamo nei prossimi giorni. Ciao.

Re: [N2022R] Le streghe del Massachusetts

@Monica ha scritto: gio dic 22, 2022 8:30 pmMi sfugge la motivazione del viaggio del giornalista,
Posso capirlo, e ne convengo pure, ma questo non è un racconto, è il cadavere mutilato di un racconto. Con le parole si può rendere plausibile praticamente qualsiasi cosa ma quando ho finito la prima bozza stavo sui 50.000 caratteri, più o meno. So che un editor avrebbe tagliato molto altro, ma io no, amo il superfluo e il particolare, spesso più che il soggetto. Il viaggio avrebbe dovuto essere lento e ben più appesantito di informazioni (ma io direi "ricco di particolari")
@Monica ha scritto: gio dic 22, 2022 8:30 pmAnche qui asciugherei. A cosa serve nell’economia del racconto approfondire così tanto le origini della cittadina
Vedi sopra, ma oltre a quello c'è un collegamento con il titolo e con il taglio documentaristico del racconto. La scrittura è un caleidoscopio di sfumature e le regole dell'editing non si applicano a prescindere, ma sono scuole di pensiero, ovviamente.
@Monica ha scritto: gio dic 22, 2022 8:30 pmChe intendi quando dici “là dice tutto è cominciato? “  La religione? L’iniziazione al voodoo? 
Se poi te lo dico finisce che oltre all'infodump mi tiri fuori anche lo spiegone e qualche altra ossessione editoriale. Diciamo che il tempo per documentarsi a dovere non era tanto e magari per un contest natalizio può anche essere più che sufficiente così, ma è sempre tutto relativo, ovviamente.
Grazie del passaggio e degli apprezzamenti, Monica. Nel fine settimana ricambio.
Ps. Non riesco mai a taggarti, cioè dopo la chiocciola e la M vengono fuori dei nick diversi (Monicame e Monica1974), ma il tuo non c'è.

[N2022R] Le streghe del Massachusetts

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L’articolo del NYT, più di vent’anni fa, cominciava così: “Casalinga frustrata, esasperata da anni di soprusi, esplode nel momento in cui la violenza del marito oltrepassa i limiti ordinari”.
Esplode però non era il termine giusto, solo una delle parole preferite da noi giornalisti. In realtà, la reazione di Loulou Williams era stata lucida nei postumi delle percosse, come se quello che stava vivendo fosse un epilogo annunciato, un compito assegnatole del quale non si poteva disattendere l’esecuzione. Malgrado il suo becero sadismo, Owen “l’Ammazzacani” Wilson era un debole. Dopo essere uscita in pezzi ma ancora viva dalla cantina, Loulou avrebbe potuto prendere la bambina e andarsene, lasciando quello stronzo nel suo brodo di merda. Perché eliminarlo, e in modo così plateale, le era sembrato tanto importante?
Loulou è morta in carcere, oggi, di Covid. Aveva settantasei anni, dei quali ventiquattro passati in cella. Io ne avevo trentadue, all’epoca dei fatti che riportai nel mio primo articolo importante, e se oggi mi rimetto sulle orme da lei lasciate in questo mondo, forse è perché la sua storia è in parte anche la mia.

Raggiungo Salem in tarda mattinata e impiego quasi venti minuti per trovare il rigattiere, imbucato com’è in una stradina secondaria. Tra vecchi televisori e testiere in ferro, apro la porta dell’esercizio. Un campanello garrulo annuncia il mio ingresso e una voce femminile mi guida dal fondo di uno stretto corridoio in ombra, a sua volta stipato di mercanzia. Entro in una stanzetta occupata da un tavolo su cavalletti dov’è allestito un plastico completo di tutti i particolari che ci si può aspettare dall’accurata riproduzione di una cittadina americana, versione anni settanta. Una donna di cinquant’anni, magra, tratti mediorientali, pelle africana, capelli color topo, spinge indietro il berretto sulla fronte scura e mi osserva come Eldon Lee Edwards avrebbe osservato un negro.
«È una riproduzione di Salem?» chiedo.
«Avrebbe potuto. Un tempo si chiamava Salem Village, una specie di succursale dell’amministrazione di Salem, quella originale, che poi pensò di annettersela. Ma non fu così che andò, e oggi quella succursale è diventata Danvers, la cittadina in cui sono venuta al mondo.»
«E anche, se non erro, il borgo dove nel 1692 furono processate le prime streghe.»
«Sì, e dove furono impiccate, alla base della collina di Proctor’s Ledge. Sei il giornalista?»
«Sì, e tu sei Antiochia Brichard, immagino.»
La donna annuisce e sospira come se quella conversazione costituisse un’incombenza inevitabile.
«Immagino tu sappia che porti il nome di una città turca.»
«Mio padre non sarebbe d’accordo. È passata di mano diverse volte, nei secoli, e parte dei siriani ancora la reclamano.»
«Tuo padre è siriano?»
«Lo è mia madre. Mio padre è africano, nato a Cotonou, affacciato sul golfo del Benin, là dove tutto è cominciato.»
Ovvero la religione più antica del mondo. Non c’è nessuna ragione di pensare che l’alta sacerdotessa voodoo che pare abbia officiato numerosi rituali in tutti gli stati, sia la stessa persona che ho di fronte e che Loulou ha menzionato come guida spirituale dei suoi ultimi anni di vita nel penitenziario di Madergale, dove la figlia di Antiochia lavorava come guardia carceraria e le ha fatte incontrare, ma è quello che dicono le mie informazioni.
«Piacere di conoscerti, Antiochia. O dovrei chiamarti Mama Oki?»
Forse è il taglio di luce diverso che scende dalla finestra, fatto sta che, per un attimo, i suoi occhi passano dal grigio cenere al giallo serpente, stringendosi nelle palpebre. Persino la pelle sembra mutare, assumendo il colore minerale di pietra vecchia di secoli, mentre le rughe intorno agli occhi si aprono e si estendono come una ragnatela sul viso.

Le testimonianze da me raccolte quando il processo era ancora in corso, dipingevano Loulou come una donna schiva, poco propensa a socializzare. Da ragazza rimaneva in disparte e pare coltivasse un interesse particolare per la magia nera. Ebbe un diverbio piuttosto pesante con Magda Foley, una delle sue compagne di classe. Magda la accusò di averle strappato una ciocca di capelli e di averli infilati dentro un pupazzetto con le sue sembianze. Più di vent’anni dopo quello sgradevole episodio di gioventù, l’impressione che ricavai dal nostro primo incontro nella spoglia stanza delle visite del penitenziario di Fresno fu quella di una donna razionale, in pace con sé stessa. Non certo una strega, e nemmeno una vittima, anche se forse era stata entrambe le cose.

Le informazioni ricavate da Mama Oki mi portano a Lowell, dove incontro Christopher Mason, l’unico seguace della Dura Madre a piede libero. A quanto pare, le prime vere esperienze di Loulou con il culto dei loa, risalgono agli albori della sua detenzione, ovvero al suo arrivo a Fresno, quando è entrata fin da subito nelle grazie di Charlene “Hardmather” Tibor e del suo gruppo di scatenate officianti. Per la cronaca, la Dura Madre è l’impiegata delle poste che ha ucciso a colpi di machete sei persone tra colleghi e clienti, e anche una delle più potenti mamaloa conosciute. Hanno in programma per lei l’iniezione letale, ma è temuta persino dalle guardie e nessuno osa contrariarla. Per questo continuano a rimandare. Probabilmente la grazieranno, prima o poi. Conoscerla dev’essere stata una bella fortuna per Loulou, perché oltre alla fede, deve averne beneficiato anche in termini di protezione.
Mason è entrato in carcere a diciannove anni, ne è uscito a quarantacinque e oggi ne ha cinquantaquattro. Vive con i genitori, e sembra una persona tranquilla, ma intransigente. L’aria severa e il cappotto lungo fino sotto le ginocchia gli danno l’aria di un giudice in pensione. Lo sguardo alienato e privo di umanità, invece, quella di un boia ancora in attività. Mi ha dato appuntamento davanti alla St. Patrick Catholic Church. All’interno della chiesa neogotica la luce pervade ogni angolo ma allo stesso tempo possiede una natura ambigua, una ronzante elettricità che disturba e sembra ricordare in ogni momento un oscuro contraltare.
«Mi hanno detto che lei conoscesse molto bene Loulou, che la Dura Madre l’avesse affidata a lei come allieva.»
«Dicono tante cose, ma non tutte sono vere.»
«La conosceva o no?»
«Sì, per quanto si possa dire di conoscere qualcuno, ma non le ho insegnato nulla che non sapesse già. L’ho soltanto aiutata a gestire meglio la fede.»
«Mi incuriosisce che fin da adolescente Loulou coltivasse fantasie in merito all’aspetto più sinistro del voodoo. La sua era una famiglia cattolica, dopotutto.»
«Sciocchezze.»
«Ha mai sentito parlare di Magda Foley?»
Una smorfia di disgusto buca la maschera di sufficienza. «Ha avuto quel che meritava.»
«Prego?»
«So che ha un marito, dei figli, una bella casa. Dicono che a qualcuno piaccia.»
«Quello che volevo dire è che sarà anche stato un normale screzio tra adolescenti appartenenti a classi sociali diverse, ma ciò non toglie che Loulou avesse appena quindici anni e già un debole per pupazzi e spilloni.»
«Che vuole che le dica? È facile sentirsi emarginati, a quell’età, e il nostro culto accoglie anche coloro che la vostra chiesa mette alla porta.»
Il resto della conversazione mantiene lo stesso timbro elusivo con cui è cominciata. Quando mi rendo conto che non porta da nessuna parte, cancello non vista il suo nome dalla lista sul taccuino e passo a quello successivo.

Mi vedo con Greta Williams sul molo di un porticciolo privato di Rockport, dove lavora in un’officina nautica. Ci sediamo in una delle panchine. Mi parla a lungo di sua madre come dell’eroina che l’ha salvata dalle grinfie del padre sadico, e lo fa guardando il mare, come se la vedesse in piedi sul ponte di una delle barche ormeggiate. È una donna esile dal collo lungo e di un biondo slavato, di una bellezza eterea simile a quella dei cigni, ma con i polpastrelli macchiati dall’olio dei motori e la tuta da lavoro sbaffata di vernice. Quando le chiedo se può dirmi qualcosa in merito alla sera dell’omicidio mi guarda con un sorriso compiaciuto e asserisce di poter fare di meglio. Due ore dopo, alla fine del turno, ci ritroviamo seduti sul divano di casa sua, davanti a un Samsung di ultima generazione, con una Bud ciascuno fra le mani. Sullo schermo la lucida ellisse di un tavolo di legno scuro striata dal riflesso delle candele. In primo piano Antiochia Brichard, gli occhi rovesciati, il viso scuro come un’ombra nel buio. «L’evocazione è recente» mi informa Greta, «pochi giorni dopo la sua morte. In vita mamma non ha mai voluto parlare di quella sera.» Il racconto di Loulou per bocca di Mama Oki va avanti più di un’ora prima di giungere all’epilogo. Alla luce ambrata del soggiorno, le lacrime sulle guance evaporano nel sorriso affettuoso di Greta.

“Quel sabato di ottobre Owen aveva appena ucciso un altro degli animali che allevava. Per qualche ragione gli si rivoltavano contro e i suoi amici lo deridevano per questo. Rientrò e mi chiese di poter cenare. Mentre sedevamo in silenzio, consumando la cena, e Greta faceva un po’ di capricci, suonò il telefono nel corridoio. Owen andò a rispondere. Sollevò il ricevitore e non disse una parola, si limitò ad ascoltare. Ogni tanto annuiva con la testa e mormorava un cenno d’assenso. Quando tornò a tavola, la cena si era freddata, ma lui mangiò senza alcuna obiezione. Avvertivo una tensione intollerabile. Istintivamente diedi a Greta il permesso di alzarsi e andare in camera sua. La sentì chiudere la porta e accendere lo stereo. Mentre riempivo il secchiaio, Owen mi venne alle spalle e mi fracassò la brocca del vino sulla testa. Mi accasciai sul lavello, gocciolando sangue sui piatti sporchi. Sentivo le gambe che mi cedevano e cominciai a scivolare verso il pavimento. Mi aggrappai al rubinetto con entrambe le mani. Owen mi afferrò per i capelli e mi pestò a sangue, per un tempo che a me parve infinito. Quando infine si fermò, sentivo la carne della mia faccia che si contorceva, si gonfiava, come una maschera che cambiava forma e mi conferiva le sembianze di un mostro. Persi conoscenza, mi risvegliai mentre ruzzolavo giù per le scale della cantina, e poi la ripersi di nuovo, in fondo. Rinvenni più volte, quella notte, e sempre non riuscivo a muovermi, mi sentivo come un sacco di ossa rotte. Ogni volta la disperazione mi sopraffava e sprofondavo nel buio. Persi il senso del tempo. I brevi periodi di veglia si allungavano sempre più, fino a che rimasi cosciente in maniera definitiva. Risalire le scale della cantina fu un’impresa epocale. Emersi nel silenzio della casa in maniera discreta, attenta a non fare rumore, come se fossi uno spettro e non avessi più alcun diritto di essere lì. La preoccupazione per mia figlia mi diede la forza di sopportare la sofferenza. Trovai il corpo di Greta disteso sul tappeto del soggiorno. Le piccole mani incrociate sul petto, i piedini accostati l’uno all’altro. L’espressione rilassata del suo viso mi fece temere il peggio e soltanto quando mi fui avvicinata abbastanza potei tirare un sospiro di sollievo. Era viva, ma non riuscii a destarla. Per un momento rimasi accasciata accanto a lei, avvilita. Poi compresi. Le intenzioni di Owen erano chiare, così come i sortilegi che adoperava e che conoscevo. La bambina era stata preparata per un momento successivo, probabilmente l’indomani. Così mi alzai, aprii l’armadietto dove teneva le armi, presi il fucile, lo caricai e salii al piano di sopra. Accesi la luce, sapevo che l’essere dentro il suo corpo ormai da molti anni, era andato in quell’altro mondo da cui proveniva. Gli occhi di Owen seguirono i miei movimenti, come animaletti nervosi. Alzai il fucile e appoggiai la canna ai piedi nudi. Tirare il grilletto mi costò uno sforzo enorme. Il boato fu spaventoso e il contraccolpo mi mandò a sbattere contro l’armadio. Quando il lampo e il fumo si furono dissipati, i piedi non c’erano più, soltanto una gran chiazza rossa sul letto e minuscoli frammenti e brandelli sparsi qua e là. Gli occhi di Owen erano strabuzzati, ma dalla bocca non emise suono. Quello che restava dell’uomo che avevo sposato doveva aver perso da tempo qualsiasi possibilità di governo sul proprio corpo. Mi andai a sedere di fronte al letto e aspettai che tornasse il gran capo in persona. Non ci volle molto. Le prime urla inferocite si accavallarono una sull’altra e gli si strozzarono in gola. Poi furono all’incirca trenta minuti di imprecazioni, di insulti osceni e puerili. Era evidente come non potesse credere a quanto era successo. Doveva proprio considerarmi una nullità. Cercò di scendere dal letto, sui moncherini, ma si accasciò tra il letto e l’armadio. Gli rimasi seduta di fronte, fino all’ultimo, per godermi il trionfo. Non fu molto edificante, da parte mia, ne convengo. Quando udii sopraggiungere i poliziotti, mi resi conto che non c’era più tempo. Andai verso di lui, gli infilai la canna del fucile in bocca e questa volta riuscii a controllare meglio il contraccolpo. Fu come schiacciare un pomodoro maturo contro la parete. Buttai il fucile sul letto e sedetti ad aspettare, mentre si levavano nuove grida intorno a me. Severe, minacciose, piacevolmente umane.»

In teoria dovrei ritenermi soddisfatto. Ho materiale a sufficienza per scrivere l’articolo che avevo in mente fin dal principio, e infatti mi rimetto alla guida dell’auto e mi avvio sulla strada del ritorno. Poi faccio una deviazione, di punto in bianco. La luce crudele negli occhi di Mason e quella sua frase ambigua a proposito di Magda Foley mi hanno lasciato la sensazione che qualcosa manchi ancora. Mi fermo nel bar di una stazione di servizio e faccio una telefonata. Prendo accordi con la persona all’altro capo, e il giorno dopo raggiungo Somerville, uno dei sobborghi dell’area metropolitana di Boston. È qui che finisce il viaggio, l’istinto me lo dice ancora prima di aver messo piede nella bella villetta restaurata da poco, affiancata da un’imponente quercia.
«All’inizio non ci ho nemmeno pensato» comincia la donna che mi ha aperto la porta, e accompagnato all’interno; il dolore e la stanchezza stagnanti nello sguardo sono il frutto evidente di un’impotenza funesta, le rughe che le solcano il viso come cicatrici, quello di un dolore mai riscattato. «Quando il corpo di mia figlia ha cominciato a…» non trova la parola, scuote la testa come per dire “lo vede anche lei” e prosegue, «…era sposata con due figli di quattro e sei anni. Ne erano passati quattordici da quell’incidente a scuola.»
«Qual è la sua malattia?»
«Nessun dottore ha saputo diagnosticarla, perché non è una malattia.»
«Mi dispiace» le dico, ma suona come un eufemismo in relazione a ciò che resta di sua figlia, nella sedia a rotelle davanti all’ampia vetrata del soggiorno.
«Come potevo immaginare che quel demonio fosse tanto subdolo da vendicarsi dopo tanto tempo? Se anche avessimo denunciato Loulou Willliams, nessuno ci avrebbe creduto, ma io so che è stata opera sua. Ho visto la rabbia e l’invidia negli occhi di quella ragazzina, a suo tempo, e non erano mostri di cui ci si possa sbarazzare tanto facilmente.»
Non perde tempo a cercare di convincermi. Non le importa. Esco dalla casa senza essere riuscito a dire nulla di significativo. Quello che ho visto pone fine a ogni cosa. Non c’è più nessuna meta, nessuno scopo, nessun articolo da scrivere. Vorrei non rimanesse nemmeno il ricordo. Mi giro un’ultima volta e la creatura che è stata Magda Foley è ancora là, alla finestra di quel tardo pomeriggio di nuvole blu, quasi nere sugli scorci di cielo bianco. Il tronco, gli arti, le dita delle mani e dei piedi, i lineamenti del viso, ogni parte del corpo è contorta ed esangue come una radice sterrata. Gli occhi deformi implorano un qualunque tipo di sollievo.
«Lei è un giornalista» mi ha apostrofato la madre, in tono sprezzante. «Mi dica, alla luce della sua esperienza: chi è il demonio, in questa vita?»

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