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Re: [MI174] Vita in clessidra

Ti ringrazio @Nightafter
sono veramente contenta che ti sia piaciuto il racconto.
Il tema della fretta insensata lo vivo intensamente, e ci tenevo ad esprimere quanto questa rincorsa perenne e immotivata influisca sui rapporti interpersonali.
Anche noi donne, a mio avviso, stiamo perdendo le nostre innate capacità multitasking, ne eravamo dotate per bisogni fondamentali che si basavano sull'amore, ora pretendiamo di sfruttarle per la continua rincorsa verso il possesso e il potere 
Grazie ancora.

Re: [MI174] Vita in clessidra

Grazie @Ippolita,
Grazie @Poeta Zaza,
ho riletto tante volte il testo cercando disperatamente di accorciarlo, ma sorvolando su alcuni errori che mi avete fatto notare, ma avrei sicuramente dovuto evitare.
Mi avete anche dato spunti di riflessione su altri sbagli, dei quali non mi ero accorta, grazie davvero.
@Ippolita la scelta di usare il cognome voleva richiamare un contesto lavorativo, anche descrivendo i rapporti familiari. Volevo sottolineare il non distaccarsi mai dai pensieri afferenti al lavoro. Evidentemente non ho colto nel segno.  :(

Devo trovare del tempo per correggere questo testo approfittando delle vostre considerazioni e correzioni, ancora grazie.
Mi fa piacere che il ritmo abbia coinvolto nel senso di oppressione dalla fretta e che la cara @Poeta Zaza sia in generale soddisfatta della lettura  :love3:

[MI174] Vita in clessidra

Traccia: Per un pugno di minuti

“Flavio alzati, sbrigati, dobbiamo uscire prima, è già tardi”.
Il figlio dell’ingegnere Pittesi affonda ancora di più il naso nel cuscino, si accoccola sotto la copertina ed emette un brontolio.

Pittesi è indispettito, mette di forza il bambino seduto, gli dice che deve andare prima in ufficio.

“Perché devi andare a lavorare prima? Stai sempre al lavoro.” Flavio chiede spiegazioni, mentre il papà lo conduce in bagno tenendolo per le spalle. “Non perdiamo tempo in chiacchiere, preparati velocemente, io penso alla colazione”.

Flavio si impunta, il viso stropicciato dalle pieghe del cuscino, un occhietto mezzo chiuso “se mi porti prima, non mi fanno entrare a scuola!” protesta con una vocina imbronciata.

Pittesi si agita, gli occhi in fuga, alla ricerca di qualcosa per anticipare i tempi, non guarda Flavio; la fretta lo attanaglia. È abituato al suo stato d’ansia, al non vivere il presente, preoccupandosi di quanto deve ancora fare. La testa è pesante come un alveare, gli ingranaggi dei suoi pensieri sono migliaia di api operose che ronzano incessantemente.

Flavio insiste, la voce si è fatta più stridula “Allora? Vengo in ufficio con te?”

Pittesi risponde blandamente “seh, ci manca, sei grande, aspetti davanti al cancello, non ti muovi di lì finché non aprono.” Il tono diventa seccato “da adesso non voglio più sentirti, devi volare, ti voglio pronto in 15 minuti, ti prendo una merendina e fai colazione in macchina”.

Flavio sente gli aghi sotto la pelle, quel “seh, ci manca” è passato dai timpani ad un cassetto nella memoria dove finiscono tutte le frasi armate, quelle che feriscono l’anima. L’irruenza delle frasi armate, quando arriva, è distruttiva, scalfisce, lascia piccole asimmetrie, alcune volte modifica le fondamenta, Flavio si incupisce.

Salgono in macchina alle 6:57, Pittesi non si gode i tre minuti di anticipo sulla tabella di marcia, pensa che è tutta colpa della segretaria. Il giorno prima era scappata dall’ufficio alle dieci del mattino, il figlio, un diciassettenne autistico, aveva dato in escandescenze con l’infermiera, che doveva essere portata via in ambulanza, ma voleva aspettare il ritorno della madre del ragazzo, per non lasciarlo solo. Alle 21:30 la demente si era ricordata di avere ricevuto una mail dall’azienda di trasporti della gara di appalto da oltre sette milioni di euro, alla quale loro stavano partecipando ed erano certi di vincere grazie agli ammanicamenti del capo. Quella mail comunicava che sarebbero stati esclusi, se non allegavano una serie di documenti entro il giorno successivo alle ore 10:00 documenti ai quali Pittesi non poteva accedere da casa.

Il capo non aveva dato cenni sul gruppo WhatsApp, era irraggiungibile. Per il nervoso si era svegliato ogni ora durante la notte. Alle quattro del mattino, un messaggio del capo dava appuntamento alle 8:00 dando per scontato che i suoi dipendenti fossero insonni, in attesa di direttive.

Mancano circa tre km all’arrivo a scuola, Flavio chiede cosa ha preso il papà per la sua merenda.

Pittesi spinge forte le palpebre sugli occhi con l’immagine della moglie che la sera prima si raccomandava di dare al figlio due fette del ciambellone appena fatto. Lei non poteva toglierlo dalla teglia così caldo. Non era abituato ad essere in difetto, lo assale una rabbia spropositata per un evento banale, risponde con voce rabbiosa “Niente, non hai niente per merenda, stamattina non ti volevi alzare e questo è il risultato! Se ti dico che ci dobbiamo sbrigare, c’è un motivo, per stare dietro ai tuoi capricci mi sono dimenticato la merenda.”

Flavio lo ascolta con gli occhi sgranati. La voce aggressiva, il senso che non trova in quelle parole, lo fanno sentire piccino, ha bisogno di un conforto, ma si vergogna di questa sua esigenza da piccoli. Vorrebbe dire al papà che è cattivo, ma già una volta gli è stato detto che sono parole da bimbetto della materna. China il capo per non fare vedere le lacrime, allo stesso tempo vuole che il padre si senta in colpa, quindi tira su col naso rumorosamente un paio di volte.

Pittesi immagina la reazione della moglie al racconto del figlio, dopo aver visto il ciambellone intatto, di ritorno dal turno di mattina in ospedale, dove lavora come ostetrica. Sua moglie, che gli rimprovera di essere troppo preso dal lavoro, di non dare la stessa dedizione alla famiglia, non capendo che lavorare per un privato, significa sacrificio. Ci mancava che l’accusasse di affamare il figlio, perché preso dal lavoro.

Parcheggia a un km da scuola, nel quartiere dove hanno abitato fino all’anno prima, chiede a Flavio se gli va bene un pezzo di pizza bianca. Il bambino stende le labbra corrucciate, la pizza gli piace, ma soprattutto è felice che il papà non sia rimasto indifferente al suo cruccio.  L’euforia gli fa sentire bollicine frizzanti tra la gola e il petto.
Pittesi vorrebbe che Flavio rimanesse in macchina per fare prima, ma Flavio è sceso e lui sente nuovamente l’agitazione scorrergli sotto pelle.

A servire al banco del pane un volto vagamente familiare lo saluta calorosamente, lo chiama ingegnere, si rivolge a Flavio chiamandolo per nome, chiedendogli “ma ti ricordi chi sono io, o eri troppo piccolo? Ora fai la quarta, vero?” Flavio risponde che è il signore del palazzo dove abitava prima e che lavora lì, dove andava con la mamma.
L'ingegnere pensa solo che ora rischia di perdere del tempo che non ha. Il tizio, che a quanto pare si chiama Carlo, chiede di loro, di dove si sono trasferiti, come stanno. Pittesi si scusa, ma deve andare, ha fretta, emana nervosismo. Carlo lo potrebbe guardare offeso, invece sembra avere pietà, quello sguardo lo attraversa, quella pietà sta ora guardando suo figlio, Pittesi si irrigidisce.

Carlo sembra parlare a sé stesso “i figli sono tutto, come diceva sempre mia moglie buonanima” Pittesi ha preso la pizza e sta già tirando Flavio verso la cassa, Flavio ha la testa girata verso Carlo “io me la ricordo sua moglie, la signora alla cassa con le gelatine” Carlo si commuove, fa il giro del banco, allunga il passo per adeguarsi al loro, prende la gelatina al limone dal dispenser sul banco “Te la dò io la gelatina al posto di Teresa, lei ora è in cielo”. Flavio la prende, sa cosa significa quella frase, capisce che è morta, chiede “come mai è in cielo?” Pittesi impreca mentalmente, chiede scusa, ora devono andare, gli spiace, è già sulla porta, fa entrare Flavio in macchina con modi rudi.
Flavio guarda il padre stranito “ma tu hai capito che è morta?” Pittesi pensa che non gli ha fatto nemmeno le condoglianze, si chiede quando sia diventato così, sente noccioli aciduli salirgli dal gozzo sulla lingua, sono davanti scuola, dice a Flavio di scendere, non gli ha risposto, è tardi.

Arriva in ufficio alle 7:50, il capo ha parcheggiato qualche secondo prima di lui, prima delle 8:00 arriva il collega, non si vede la segretaria, il capo la insulta in contumacia.
Francesca, così si chiama la segretaria, si appalesa alle 8:08, ha gli occhi gonfi, occhiaie scure, un livido sullo zigomo sinistro. Viene subito aggredita dal capo, le urla che è un’incompetente irresponsabile. Francesca non si scompone, ha problemi più seri, anche se il lavoro le serve, non si affretta alla scrivania, ha una compostezza statuaria che immobilizza la frenesia dell’ufficio. Quella donna, che più di tutti necessità di uno stipendio, sembra l’unica senza fretta. Spiega che ha dovuto istruire il volontario nuovo, che suo figlio patisce i cambiamenti. Il capo non la lascia parlare. Ha tardato una manciata di minuti, ma lui non può permettersi di perdere milioni di euro. Arriva a dire che forse dovrebbe metterlo in istituto quel ragazzo, piuttosto che rischiare di mandare per stracci le nove famiglie che dipendono dalla sua azienda. Mentre gira i tacchi aggiunge, a tono basso, che anche lei dovrebbe farsi un controllino, che magari è ereditario.
Sono tutti attoniti, nauseati, immobili, dimentichi della fretta. Basta un battito di mani del capo per farli ripartire come automi, anche Pittesi si rimette al lavoro, con le budella che si contorcono, con la certezza che a quell’uomo, delle nove famiglie, non freghi un cazzo, che tutti loro si sbattono ben oltre il dovuto perché lui si arricchisca. Vorrebbe abbracciare Francesca, parlare con Carlo, andare da suo figlio con il ciambellone. Desidera mollare tutto in quel momento, piantarli in asso. Ha una nuova consapevolezza, si sente diverso, nel profondo, ma come fa a tornare a casa e dire che non ha più un lavoro? C’è  sicuramente un’alternativa, deve solo fermarsi a pensare, ma la clessidra corre, la scadenza si avvicina, non può pensare a come cambiare vita con tutta quella fretta. Cambierà, se lo ripete un’ultima volta, è già cambiato ora. Per l’ultima volta, spera, si fa fagocitare dalla fretta.

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