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[Lab2] Guardami

Le esequie del generale Giancarlo Balestrieri, mio padre, si sarebbero svolte l’indomani alle 11.30 nel duomo di Porto Gaiano. Cerimonia solenne alla presenza del sindaco, commendator Pizzardi, del di lui cugino, onorevole Forello, e officiata da monsignor Castroni, distolto per l’occasione dagli impegni in Curia, volti a promuoverne la carriera prelatizia.
La dipartita del generale aveva mobilitato un gran viavai di personalità, stampa e televisioni locali, per quella considerazione dovuta alle famiglie autorevoli, più che per merito, per consistenza patrimoniale. Ai Balestrieri, proprietari di terre e allevamenti, spettava da sempre, sebbene la carriera militare di mio padre, ancorché fulgida, avesse sortito una certa trascuratezza delle proprietà.
Circondato dall’affetto dei suoi cari, il generale Giancarlo Balestrieri è serenamente trapassato. Ne danno il triste annuncio...
È così che ci si esprime quando si maneggia l’autorità. Con rispetto e deferenza e, trattandosi di morte, anche con la devozione tipica di quei lumini con cui si agghinda il tanfo dei fiori imputriditi.
Ciò non toglie che il Generale fosse effettivamente morto, con prevedibile collasso degli sfinteri e rilascio di materiale organico. Mi piaceva pensarlo così il sereno trapasso, brutale e senza dignità, non tanto per rancore quanto per senso di giustizia.
Non lo vedevo da anni e non mi sarebbe mancato nemmeno un po’.
Nessun dolore. Nessun ricordo. Li avevo cancellati con cura, uno dopo l’altro, tranne quello delle cinghiate che mi avevano segnato la carne per sempre. Era stato il suo modo di commentare il pestaggio subito a scuola.
«Femminuccia, fatti un goccetto!» mi gridavano quelli spingendomi la testa nel water.
«Te la faccio passare io la voglia di sputtanarmi davanti a tutti!» mi urlava lui.
Stessa violenza. Stesso odio. Non riuscivo a capire dove finiva una e cominciava l’altro.
«Qui non ci puoi restare.» singhiozzava mia madre mentre mi lavava il sangue nella vasca tiepida.
Mi mandarono al Saint Louis, collegio molto esclusivo e orribilmente tetro.
Per anni vidi solo lei, che veniva di nascosto, come per la vergogna di un figlio criminale.
«Abbi pazienza» mi diceva «Lui non è cattivo… è fatto così » mi abbracciava stretto, ogni volta quasi fosse un addio e se ne andava con gli occhi lucidi. A passi incerti, come non volesse, sempre più pallida, sempre più sottile e simile a un uccellino in bilico su un ramo.
Uno di quegli abbracci fu davvero l’ultimo. Avrei potuto accorgermene e invece no. Certe cose ti arrivano addosso come uno schiaffone.
«Ci duole comunicarle che sua madre è deceduta» disse il preside. Mi dette il tempo di riprendere fiato e aggiunse: «Suo padre ritiene molto importante la continuità dei suoi studi, pertanto la solleva dal presenziare alle esequie.» Fece una pausa compunta e disse:« Voglia accettare le mie condoglianze».
Se n’era andata. Senza dirmi niente. E lui non mi voleva nemmeno per l’ultimo saluto.
Adesso ero solo. Solo davvero.
Quella notte pensai a una fuga. Qualcosa di estremo, via da tutto e da tutti.
Seduto sul letto, guardavo la finestra e i rami scuri che ondeggiavano davanti alla luna. Mi alzai, andai ad aprirla e mi sporsi un poco.
«Sono quattro piani. È molto doloroso, te lo assicuro. E non è detto che finisca lì».
Michele Pagano, dei Pagano di Altavilla, troppo biondo anche per una casata normanna, era accanto a me, il suo braccio sulle mie spalle, la pelle odorosa di muschio e lavanda.
«E tu che ne sai?» dissi tra i singhiozzi.
«Non sei mica il solo con il cuore a pezzi.»
«L’hai fatto?»
«Diciotto mesi di riabilitazione. È per questo che zoppico.»
«Ma io non volevo mica...»
«Certo, nessuno lo vuole davvero. Però adesso torniamo a letto. Sei gelato. Potresti prenderti un malanno».
Restò accanto a me. Quella notte e tutte le altre. E furono notti tiepide, calde, roventi. E poi ancora tiepide, tenere e quiete.
Michele restò con me. E c’è ancora. Adesso che non siamo più studenti del Saint Louis. Adesso che ne siamo usciti. Certo non raddrizzati come avrebbe preteso mio padre, ma con tutta l’attrezzatura per farsi strada nel mondo. Preferibilmente in America. Preferibilmente a New York. Dove non esiste un piano B, esiste solo un piano A. Dove adesso siamo anche noi, al 129 East della 73th Street.
A casa non tornai più. Fino a quel momento.
Fu una telefonata alle sei e un quarto di mattina.
«Dottor Balestrieri? Sono il notaio Briganti...» Briganti, nomen omen pensai.
Il Generale se n’era andato. Per sempre. Stavolta non era un preside a darmi la lieta novella, era un notaio, il che dava la misura del livello emotivo, condoglianze incluse.
E, guarda caso, adesso la mia presenza alle esequie, non solo era gradita, ma addirittura richiesta. Dalla famiglia, patrimonialmente impensierita, dal vescovo, dal notaio e dal paese tutto.
«Ci sarò» dissi.
Michele mi guardava dal bancone della cucina con il mento poggiato su una mano.
«Dunque torni a casa» disse sornione.
« Casa mia è questa. Tu, piuttosto, hai messo tutto in valigia?»
«Non credo sia una buona idea» disse vuotando la tazza di caffè.
«Non ci provare. Tu vieni con me».
«Sei sicuro?» Si alzò e fece roteare il chimono di seta con una piroetta «Guardami».
«Lo faccio da anni. E non smetterò proprio adesso. Datti una mossa che è tardi.»

Ore 10.30. Porto Gaiano, Grand Hotel La Duchesse. Il jet lag e l’ansia da Resa dei conti, a turno, mi martellavano la testa.
Michele uscì dal bagno e mi squadrò  da capo a piedi «No, assolutamente no» sentenziò.
«Perché? »
«Stai scherzando, vero?» Mi afferrò per un braccio e mi trascinò davanti allo specchio.
«Beh? L’ho preso in saldo da Armani.» dissi «Cos’ha che non va?»
«Senti, mi hai trascinato qui, e va bene. Hai deciso di presentarmi come tuo compagno, e va bene…»
«Certo che va bene! È una questione di dignità. O vuoi tutto il repertorio Luce del sole contro Vivere nella menzogna?».
«Ma cristo santo, hai una gonna e un tacco dodici!»
«Hai ragione: per un funerale è troppo. Meglio….»
«Meglio un completo pantaloni, camicia e un paio di Oxford » disse irritato « E, per l’amor del cielo, legati quei capelli!»
« Chignon?»
«Coda bassa, cavolo!»
«Ma così…»
«Così forse, e dico forse, ne usciremo vivi. E togliti quella cazzo di collana!»
Buttò sul letto le mie cose, si infilò la giacca e accese una sigaretta.
«Ho capito» dissi «Tu non vuoi che…»
Mi afferrò per le spalle, fece un gran respiro «Forse devo ricordarti dove siamo e cosa andiamo a fare».
Sentii le lacrime salire a spezzarmi la voce «Tu non vuoi che mi vedano, questa è la verità. Preferisci che continuino a pensare che non sia successo niente, che il caro estinto aveva un figlio un po’ eccentrico, ma tanto un bravo ragazzo, che…»
«Ma no, non è questo…»
«È questo invece!» piangevo. Sentivo il rimmel bruciare mentre colava giù.
Lui mi prese la faccia tra le mani «Ti dico che non è questo» mi baciò «Ci siamo incontrati all’inferno e lo abbiamo attraversato insieme» mi strinse al petto «Non voglio che ci torni».
Prese un fazzoletto e mi asciugò la faccia.
«Si macchierà» dissi tirando su col naso.
«Lo laveremo. Oppure lo seppelliremo. E se non basta gli daremo fuoco».
Seduti sul letto, sentivo la sua mano carezzarmi i capelli e la tensione dissolversi in una marea di dolcezza.
Andai ad aprire l’armadio, presi il completo di seta grigia e lo posai sul letto. Avevo messo su svariati chili per colpa dei Pancakes, i pantaloni avrebbero fatto delle pieghe orrende e la camicia avrebbe peggiorato le cose.
«Ma dai, non può funzionare. Ho una quarta abbondante».
«A questo servono le giacche».
«No, non può, non può» dissi desolata allo specchio.
«Funzionerà, credimi. Sarà banale, ma la gente vede quello che vuole vedere. E oggi vedranno il figlio del generale Balestrieri. Appena un po’ sovrappeso, ma sempre un gran bel ragazzo».
«Ma quello si chiamava Mario!»
«Non importa. Se eviti di sculettare…»
«Io non sculetto! Non l’ho mai fatto. E dal notaio? Vorrà vedere i documenti e lì c’è scritto Maria Balestrieri. Sono anni che è scritto così. Tu sai quanto mi è costato. E non sto parlando di soldi».
Michele si lasciò cadere sul letto. Mi sedetti accanto a lui.
«Ti sta bene questo tono di biondo» disse «Ti illumina».
Lo guardai. Era l’uomo della mia vita. Poche persone hanno questa fortuna.
«Voglio che mi vedano, Michele. Non per vanità o per rivalsa…»
«Lo so, è per vendetta. Vuoi mandargli di traverso il rinfresco del Consolo. Lo chiamano così da queste parti, no?»
«Ti ricordi quello scherzo che fanno ai bambini? Cominciano a chiedere dove sia finito fingendo di non vederlo. Lui dice di essere lì, ma nessuno sembra sentirlo. Allora il bambino grida più forte, ma niente, nessuno gli dà retta. Lui piange, si dispera, ma non c’è verso. E solo quando è in preda alla disperazione più nera, il gioco finisce.»
«Crudele.»
«Sì, ma il punto è un altro. Perché tanta angoscia? Dopotutto nessuno lo ha effettivamente maltrattato, né gli ha usato vera e propria violenza.»
«Perché per gli hanno negato l’esistenza, lo hanno cancellato dal mondo.»
«Sì. Per questo voglio che mi vedano. Lo capisci, vero?»
Mi sorrise.
«Tranquillo» dissi «andrà tutto bene. Niente è come allora» gli presi una mano e la poggiai alla guancia «E poi stavolta non sono sola».
Dall’armadio tirai fuori un abito longuette e un paio di Chanel. Li indossai, sciolsi i capelli e presi la borsa.
«Andiamo. Non vorrai far aspettare l’Inferno».

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