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Re: [Lab6] - Chez Mao – Pt. 1

Mio buon amico @Mina 

Nulla mi appassiona e piace di più del ragionare intorno a questi temi.
Da che per l'età ho dovuto darmi una calmata con l'altra metà del cielo (La gnocca), questa resta una delle poche passioni a cui mi dedico assai volentieri.
Per tanto non posso che essere felice del tuo pippone in risposta al mio.

Quei film di cui ho fatto menzione, erano dei capolavori del loro tempo, poiché inventavano un linguaggio filmico rivoluzionario, erano la rotture degli schemi narrativi del mezzo cinematografico imperante e vieppiù di genere hollywoodiano.
Un cinema di contenuti anziché di puro spettacolo, come nella storia italiana del dopoguerra era stato il neorealismo.

Nasceva nel cinema quello che in letteratura era stato il messaggio di J.P. Sartre, o se vuoi di Moravia in Italia.
La creazione di una storia "non storia", con personaggi senza caratteristiche "eroiche", narrata con una tecnica e un linguaggio fuori dagli schemi.
Un cinema che raccontava dell'interiorità dell'uomo, che diveniva ingranaggio passivo della macchina sociale del consumo, perdendo la propria individualità e il senso stesso della propria missione esistenziale di vita.
Discorso che oggi diamo per scontato, ma che allora era rivoluzione e ribellione verso il "sistema".

In questo genere di film ve ne sono alcuni che pur nel linguaggio innovativo e anticonvenzionale erano intrisi di una poesia tragica e disperata, che colpivano lo spettatore in maniera profonda.
Vedasi come esempio: "À bout de souffle", un film del 1960 scritto e diretto da J. L. Godard, considerato il manifesto della Nouvelle vague.
Credo che se tu li avessi visti, non ti saresti annoiato, perché ne avresti compreso la provocazione linguistica.

Ora tornando al mio problema, senza volermi paludare di tutto questo bagaglio culturale, nel mio modestissimo esperimento di scrittura (che talvolta riesce d'essere leggibile e altre di far pena)  ho come riferimenti quel mondo da una parte e Piero Chiara dall'altro.
Il mio limite riconoscibile è di riuscire a scrivere solo in questa maniera ( se vuoi chiamalo metodo, stile, o peccato mortale) di qualsivoglia argomento mi accinga a scrivere, quale che sia il genere in cui mi cimento.

Per altro, in termini di storia, vorrei evidenziare che questo racconto non è un episodio casuale e legato alla contingenza del contest che lo ospita, ma fa parte della enciclopedica saga con gli stessi protagonisti che da anni ormai vado pubblicando con una sequenza di racconti a puntate.
Questa serie di racconti che illustrano vari momenti delle vite e delle vicissitudini dei personaggi che li animano, dovrebbero secondo un progetto che tengo nel cassetto, far parte di una unica raccolta che li contenga tutti.

Quindi abbi pazienza ma credo che al di là dall'apprezzamento per le più o meno dettagliate descrizioni ambientali, difficilmente ciò che scrivo potrà appagare le tue aspettative di lettore.
Me ne scuso, non te ne voglio e non volermene.

Un saluto amico mio  (y)

Re: [Lab6] - Chez Mao – Pt. 1

Mina ha scritto: Niente da dire sulla scelta nello specifico, ma trovo che sia qualcosa di più grosso a mancare, di cui già ti avevo parlato sotto alla sinossi: manca la storia. 
Mio buon @Mina 
anzitutto grazie di avermi letto e del gentile commento.
Sulla mancanza di storia se me lo consenti avrei una piccola obiezione.
E' indubbio che i nostri obiettivi narrativi sul concetto di "storia" non collimino.
La tua idea di "storia", da quanto da sempre evinco nel leggerti, è improntata allo sviluppo di una vicenda "epica".
Sia che si tratti di fantascienza, di horror , di fantasy o di thrilling, i tuoi racconti sono colmi di azione, di personaggi in qualche misura eroici (quindi epici) che attraverso una moltitudine più o meno vasta e perigliosa compiono una impresa che può essere o meno a lieto fine.
Questo attiene al più vasto concetto letterario di narrativa fiabesca, anche se qui è da intendersi come favola per adulti.

La mia concezione di storia è all'opposto, in genere come avveniva nella filmografia della "nouvelle vague", in autori come Jean Luc Godard, la vicenda raccontata muoveva da un fatto minimale, oggettivamente di poco interesse, quasi banale direi, e si sviluppava divagando dalla premesse iniziale del racconto, per interessarsi d'altro e poi d'alto ancora.
Come avveniva nei film "esistenzialisti" di Michelangelo Antonioni, la macchina da presa, seguiva l'azione "divagando", assai sovente mentre il personaggio principale era in scena, magari impegnato in un dialogo con uno degli altri protagonisti del film, la camera da presa entrava nel primo piano di un particolare della scena: magari un quadro appeso a una parete, esaminandone i particolari, e vi restava per tempi cinematograficamente enormi, mentre il dialogo dei personaggi continuava tranquillamente.

Quale era il significato di un linguaggio filmico tanto insolito?
Orbene, come accade nell'Ulisse di Joyce, si opera sul piano realistico e di flusso del pensiero.
Joyce lo fa eliminando la punteggiatura dal suo scritto, e passando in rassegna una sterminata serie di pensieri vieppiù apparentemente su fatti e argomenti lontanissimi tra loro.
Questo perché se si vuole rappresentare la "mente" che pensa, in maniera "naturale", non si può fare a meno di osservare un flusso costante e disomogeneo di pensieri.
A esempio, magari stiamo pensando di dover pagare l'assicurazione dell'auto, ma un secondo dopo ci viene in mente che la segretaria del nostro ufficio ha un bel culo, poi ancora che dobbiamo acquistare la carta igienica che è finita nel bagno di casa.

Orbene senza compiere una bestemmia o un sacrilegio, premetto che non ho nessuna intenzione di paragonare me stesso e ciò che scrivo al genio di Godard, di Antonioni e men che meno di Joyce, ma nel mio piccolo, l'interesse di ciò che racconto si muove sempre da qualcosa che attiene alla realtà, e sovente a fatti irrilevanti della stessa, per poi "divagando" giungere a una qualche indagine introspettiva della mente e delle azioni dei protagonisti.
Pertanto difficilmente in ciò che scrivo si trova dell'azione dinamica e vieppiù esaltante che possa incontrare il gusto che è proprio delle tue narrazioni.

Per quanto concerne l'obiettivo del protagonista della mia storia, mi pare che tu non ne abbia colto l'essenza, che ben che io come premesso non mi sia posto il problema di ricercare contenuti educativi e morali, non posso che evidenziare che un qualche obiettivo, suo malgrado, l'ha raggiunto.

Infatti ha scoperto che riesce a farselo venire duro a dispetto delle norme igieniche, è che una donna non è solo un buco dove riparare il proprio ammennicolo in caso di bisogno.
Il che non è tanto, me neppure poco.

Grazie ancora per il tuo commento e scusa il pippone di risposta.
Caio alla prossima.  (y)

Re: [Lab6] - Chez Mao – Pt. 1

Ciao carissima @Canis 

anzitutto piacere di fare la tua conoscenza e mille ringraziamenti per la lettura e il commento alla prima parte di questo mio racconto.
Canis ha scritto: Tutto cambia con l'arrivo alla casa di Mao: lì le pennellate diventano più vivide, il mondo cominicia a crescere intorno a te e a pulsare. Insomma, comincia a funzionare e a vivere anche al di fuori dello scrittore.

Sempre all'inizio sono rimasta un confusa dallo stile che volevi adottare: talvolta è retrò e quasi aulico, talvolta grezzo e "ribelle". Forse l'intento era proprio quello di contenerli entrambi, ma sentivo una sorta di disallineamento tra i due. Di nuovo la fusione riesce molto meglio andando avanti: un po' come se tutta la prima parte servisse per carburare, sperimentare, e infine poi partire una volta ingranata.
Ti devo una spiegazione: questo racconto è legato (in sostanza ne è un episodio) a una saga giovanile della seconda metà degli anni Settanta, che con gli stessi personaggi, vado sviluppando su queste pagine fin dal mio esordio nel vecchio e in questo nuovo forum di scrittura.
Certa abbondanza d'informazioni sui personaggi, serve a chi già ha seguito altre vicende in cui sono presenti, a rimettere a fuoco le loro peculiarità generali.
Detto ciò, come giustamente hai colto, metto in atto uno stile narrativo con un passo d'antan, che volutamente entra in collisione con lo slang giovanile dell'epoca narrata (spesso infarcito di termini gergali o volgarità).
Come tu dici, la mia speranza è sempre quella di portare il lettore (dopo la dovuta carburazione) a entrare nello spirito del racconto.

Mi auguro che anche la seconda parte della storia (che sto per pubblicare) possa risultarti leggibile senza sbadigliare.

Grazie ancora, a presto rileggerti, un caro saluto.  <3

Re: [Lab6] - Chez Mao – Pt. 1

Poeta Zaza ha scritto: A me pare che tu voglia fermare il tempo che passa rielaborando vicende e ricordi di una sfrenata gioventù caratteristica di quegli anni, cadenzata su sesso - droga (spinelli eh... chiarisco) e musica. Una narrazione terapeutica che deve, per essere efficace, mantenere linguaggio, odori, situazioni e stile narrativo dei tuoi vent'anni, con il sottofondo malinconico dei tuoi attuali... anta.
Mia diletta amica @Poeta Zaza 
anzitutto i consueti ringraziamenti per le tue impagabili correzioni alle lacune dei miei testi, cosa che tutta la mia gratitudine non riuscirà mai a ripagare per l'enorme lavoro, protratto nel tempo,  da te profuso.  <3

Il tempo purtroppo non si ferma neppure rievocandolo, e per fortuna che è così, lo spettro dell'eternità sarebbe spaventosamente temibile.
Come già detto, possedendo ricordi di vita, mi resta da compiere solo il lavoro di riordinarli e tentare di renderli (con la poca qualità che mi è propria) attraverso la scrittura.
Qualche volta la cosa mi pare che riesca, altre volte ne viene fuori qualcosa di velleitario se non di soporifero.
In ogni caso, al di là dell'uso che faccio dei miei ricordi, posso assicurarti di non viverli come rimpianto di una remota "età dell'oro", ho vissuto e vivo a tutt'oggi perfettamente in sintonia con la mia età anagrafica, per carattere e formazione ho sempre trovato motivazioni e piaceri in ognuna delle età della mia vita.
Credo che se ne trovi riscontro anche in diversi dei miei racconti del presente e del passato.

Grazie ancora e un grande abbraccio.  <3

Re: [Lab6] - Chez Mao – Pt. 1

Bene.
Grazie al mio più assiduo e cortese angelo custode ( @Poeta Zaza )
scopro che non basta scrivere un pippone più lungo della Divina commedia e postarlo per aver terminato il lavoro.
Ma bisogna anche che uno che a mala pena si regge su una bicicletta, sappia anche spiegare con quale meccanismo si tiene in sella e procede in equilibrio senza stamparsi alla prima svolta.

Che mai posso dire di ciò che scrivo?
Anzitutto che tra i numerosissimi autori e libri letti, ve ne è uno a cui ho sempre guardato come un faro nella notte: il mitico ed eccellentissimo Piero Chiara.
La sua scrittura, il passo narrativo, la sagacia e l'ironia raffinata dei suoi racconti, mi hanno sempre riempito d'una invidia feroce.
La maniera e  il gusto "retrò" del mio linguaggio nascono mediati da quello della prima metà del '900, che apparteneva alla sua penna.

So bene di non usare una scrittura "moderna" in senso letterario, ma trovo che per certo genere di storie, come questa appena pubblicata, sia più congeniale alla narrazione, la pratica di un "raccontare" vestendole di un'epica risibile cose di per sé banali e prive di un universale interesse.
L'aspetto in qualche misura "attuale" non è nello stile narrativo ma nei temi trattati dal racconto: sesso, droga e rock and roll.

Queste storie vengono attinte a man bassa dai miei trascorsi giovanili, il compito che mi propongo nel tradurle in scrittura è di suscitare un qualche
sorriso o svago nel tempo di lettura impiegato, l'impresa sta tutta nel trasformare una banalità del quotidiano in qualcosa che abbia la veste ironica 
di una gag.
Amo ovviamente dare ritratti dei personaggi coinvolti che ne mostrino le tipicità fisiche, sovente coerenti e funzionali a definirne anche le inclinazioni del carattere, le passioni e i valori che gli appartengono.

Quasi mai questi racconti contengono messaggi morali ed etici, se incidentalmente ve ne si ravvisano, è compito del lettore recepirli e valutarli secondo il proprio metro culturale e morale.

Detto questo non saprei che altro aggiungere: parlare di come sto sulla bicicletta, mi confonde e mette in crisi, sono un'istrione affetto da modestia e timidezza, pessimo affabulatore di cose personali.


Vi saluterei con le parole del sommo poeta:

"Godete fanciulli mieie, stato soave
 stagion lieta è cotesta, la vostra festa, 
 c'anco tardi a venir, non vi sia grave."

[Lab6] - Chez Mao – Pt. 1

    


[Lab6] - Chez Mao – Pt. 1



Lui, Giulio e Alfio, si trovarono al bar pasticceria Zucca di via Roma, uno dei bar storici al centro di Torino.
Alfio che era un vecchio compagno delle medie di lui, l'aveva fatto conoscere a Giulio perché era un formidabile percussionista, un elemento perfetto per formare il terzetto musicale che, per diletto, avevano creato di recente.
Giulio suonava divinamente la chitarra, lui si destreggiava sul flauto (molto meno divinamente del suo amico), mentre ad Alfio potevi dare in mano qualsiasi oggetto: dalla lattina vuota di una Coca Cola a un fustino usato del detersivo, e lui li faceva suonare con dei ritmi da ingelosire Marcus "The Magnificent" Malone, il percussionista dei Santana, percuotendole con le dita o con due bacchette improvvisate.
Presero un caffè, poi, dato che erano eccezionalmente in lira, si concessero anche un "messicano" farcito di crema, che era una tipica leccornia del locale, nota in tutto il capoluogo sabaudo.
Ristorato che ebbero corpo e anima, si avviarono in direzione Po: avevano appuntamento, alle quattro del pomeriggio, a casa del comune amico Mao, al secolo Maurizio Mastropietro.
Lì vi avrebbero trovato anche Enea Baldini: entrambi erano compagni di classe del Liceo Artistico, e quel pomeriggio avevano l'intento di dar vita una “jam session” musicale, da registrare su cassetta magnetica.
Per l'occasione avevano dietro i rispettivi strumenti: lui si era portato il flauto dolce in legno di pero, che era il primo strumento che avesse posseduto e tentato di suonare in vita sua.
Giulio aveva, nella custodia rigida nera, l'inseparabile chitarra “Ovation”, Alfio delle “tablas” indiane, una coppia di bongos e un piccolo xilofono in legno che teneva nella sacca a tracolla.

Era un pomeriggio luminoso di metà marzo, l’aria primaverile era tiepida e lieve, come i loro pensieri di quel giorno.

Mao viveva in un enorme alloggio, al quarto piano di un edifico d'epoca situato nei pressi di piazza Carlina: un'abitazione ricavata dall'unione di due alloggi contigui di cinque stanze ciascuno, che di fatto occupava l'intero ultimo piano del palazzo.
Trovarsi da lui era una "figata, perché aveva una vasta camera da letto che condivideva col fratello più giovane, nella quale si poteva fare tutto il casino che volevi, senza dare disturbo ai genitori che occupavano l'altra ala della casa.
Giunti al portone carraio del caseggiato, attraversarono un cortile con acciottolato seicentesco, su cui si affacciavano diverse le scale del complesso condominiale.
Non c'era ovviamente ascensore: giunti al piano di destinazione suonarono al campanello dell'abitazione dell'amico, poi, attesero pazientemente una decina di minuti, prima che qualcuno venisse ad aprirgli.
Alla porta venne Pelle, il fratello quattordicenne di Mao, esibendo una delle sue migliori arie di scazzo.


Pelle aveva quel nomignolo per via del fiorire incessante di un'acne giovanile particolarmente aggressiva, la quale conferiva al suo volto imberbe l'aspetto, ricco di protuberanze e crateri del suolo lunare.
Pustole e brufoli col puntino bianco o giallo che era lecito immaginare, nel suo corpo, non si limitassero alle sole zone in vista.
Problema giovanile che certamente influiva sulle asperità e l'insofferenze caratteriali della sua verde età.
Il ragazzo era inoltre di grossa stazza, quindi inevitabilmente anche un po' lento nel muoversi.
Del resto la casa era tanto vasta che tra il trillo del campanello e il raggiungimento dell'entrata, era necessaria una mezza giornata di cammino.
Non che il giovane fosse simile a un bradipo, ma aveva i suoi tempi e li rispettava.
Forse l'unica cosa che rispettasse al mondo.
Era dotato di un umore ombroso, farcito di caustico cinismo, che mostrava ogni volta che ne aveva occasione.
Aperta che gli ebbe la porta, li accolse con uno scorbutico mugugno: - Siete qui per mio fratello, vero. - Constatò con aria greve.
Al loro assenso aggiunse: - Minchia, quello scemo: tutti i più sfigati che racatta in giro se li porta qui. Questa casa è diventata un asilo di barboni, un vero troiaio.
- Cazzo! Pelle, sei sempre affabile come una ragade al buco del culo. - disse Giulio: - Non sforzati a farci strada che rischi ti cali l’ernia e magari ti si sciolgono due grammi di quella ciccia flaccida.
- Fanculo! - rispose lui - Volete anche che vi porti anche l'uccello a pisciare o fatte da soli?
Quindi, in malo modo, fece un cenno col capo a indicargli la strada:
- Quel coglione lo trovate giù al fondo, sempre avanti. Quando sentite la puzza, l’avete trovato.
- Grazie. - Aggiunse Giulio - Sei utile come due ganasce appese alle palle. Facci passare e torna a menarti il bagigio, sempre che te lo trovi fra il lardo.
Lui non subì passivamente.
- Brutti finocchi! Siete delle merde! Le vostre madri la danno ai tossici sifilitici.
Alfio, di origine sicula, per il quale la mamma era sacra, accusò l'offesa sanguinosa, fece immediatamente per tornare indietro col proposito di gonfiarlo come una zampogna, ma Giulio lo placcò al volo, dicendogli di non perdere tempo, al limite lo avrebbe menato al ritorno, quindi proseguirono il cammino.


Attraversarono stanze che si aprivano su altre stanze, come sovente accadeva nelle planimetrie di quelle abitazioni d'epoca.
Ciò che caratterizzava lo spirito della casa era un gusto estroso per gli accessori d'arredo: costituito prevalentemente da oggetti d'origine etnica, che la rendevano più simile a un bazar o al magazzino di un rigattiere.
Questo perché il padre di Mao, per lavoro, viaggiava molto all'estero e amava portarsi a casa ogni sorta di souvenir dei luoghi visitati.
Era un appassionato raccoglitore di cimeli e oggetti d’arte: diceva lui.
D'inservibili minchiate e cianfrusaglie, dicevano: i suoi figli.
Gli oggetti provenienti da luoghi in cui non era mai stato, aveva provveduto a reperirli la domenica mattina, al mercatino del Baloon di Porta Palazzo, oppure da qualche robivecchi.
Vi erano stampe di gusto egizio antico, o giapponese, maschere rituali africane, teste impagliate e pelli d'animale selvaggio.
In un salotto era esposta un'intera armatura da samurai, con tre katane disposte artisticamente sulla parete alle spalle, mentre sul pavimento in listoni di legno grezzo, vi era una grande pelle di zebra come tappeto.

Compresero di essere giunti alla camera di Mao dal frastuono che ne perveniva: teneva a volume massimo, “Fireball” dei Deep Purple sullo stereo: gruppo di cui era ardente cultore.
Bussarono, poi visto che nessuno se li cagava, girarono la maniglia della porta ed entrarono.
La stanza si rivelò piuttosto eccentrica.
Una parete annegava sotto uno strato di locandine e poster rockettari dai colori psichedelici, un'altra, aveva mattoni a vista, semicoperta da vecchie affiche musicali e locandine cinematografiche d'epoca.
Quella più ampia presentava un grande murales, sul quale, Mao, che era artisticamente assai cazzuto, con perfetto stile preraffaellita aveva dipinto sé stesso, in sembianze di dio Pan, con tanto di flauto di canna, calato all'interno di una scena bucolica: un paesaggio silvestre con ninfe discinte e poppute, inseguite da fauni infoiati che cercavano, vieppiù, d'ingropparsele.

Nella stanza stagnava un'aria greve: una mescola d'incensini al gelsomino, fumo di sigaretta rancido, canne e odori fisiologici.
La situazione igienica generale appariva quanto mai deficitaria, era evidente che la madre dei due pargoli, con intento educativo, avesse lasciato a loro l'autogestione delle pulizie e del riordino, cosa che all'evidenza dei fatti non avveniva da mesi, se non da anni.
Un incredibile casino regnava ovunque: polvere e immondizia fungevano da tappetto alla stanza, vi erano mensole stracolme di vecchi libri e cataloghi d’arte, volumi di fumetti, tele oltraggiate dal colore giacevano poggiavano al muro; vecchi fustini di detersivo, zeppi di rotoli con bozzetti di studio, qui e là, spuntavano come piante ornamentali.
Il guardaroba era costituito da scaffali in legno grezzo, affastellati caoticamente di capi di vestiario, senza apparente distinzione tra sporchi e i puliti.
Una pila di 33 giri presidiava un impianto stereo con piatto professionale, quattro enormi casse Pioneer CS 570 dagli angoli della stanza, diffondevano la musica assordante.
Raccolta in un angolo, la dotazione strumentale contava una chitarra acustica, un basso elettrico con relativo amplificatore, una coppia di congas, un banjo e un violino cinese.

Il centro della stanza era occupato da un vecchio divano e un ampio tavolino basso, su cui stava un capace posacenere colmo di cenere e mozziconi di sigaretta.
C’erano cartoni di pizza vuoti e unti abbandonati qui e là, una vasta collezione di lattine di birra e Coca consumate, una vecchia scatola in latta di biscotti Plasmon, conteneva mazzette di biglietti del tram usati, ottimi come filtrini per gli spini, e confezioni di cartine Rizla+ a foglio lungo.
C’era poi un massiccio letto a castello, deputato a custodire il sonno dei due fratelli.
Mao ed Enea stavano sul pavimento, infilati in due sacchi a pelo a poca distanza l'uno dall'altro.
Ma non erano soli in quei giacigli di fortuna.
Nel primo sacco stava Enea: nudo per la metà che ne emergeva, con la sua faccia larga, piatta e scanzonatamente gioviale, un cordino di pelle raccoglieva in una coda la lunga zazzera bionda.
Al vederli entrare li degnò di un moderato saluto con la mano, senza distogliersi da ciò in cui era impegnato.
A fargli compagnia c'era una presenza che al momento non era dato di vedere, poiché intanata al fondo del sacco.
Dai mugugni sommessi che emetteva, si deduceva che la presenza fosse femminile, mentre dagli espliciti movimenti, visibili all'esterno, s'intuiva che fosse intenta a un lavoro che interessava la zona coperta del giovane vikingo romagnolo.
Enea si abbandonava a quel lavorio, con aria assorta e beota: teneva all'angolo della bocca una mezza cicca fatta a mano,

al momento spenta; l'occhio ceruleo e appannato, si perdeva in un punto lontano del cielo al di là del vetro, torbido di lordume, della finestra.
Mao, molto più attivo, stava invece pompando con grande impegno una tipa all'interno del proprio sacco.
Anche di lei non era dato di vedere il volto, poiché la testa era interamente occultata dal cappuccio del sacco a pelo.
Neppure lui si fermò. Voltò solo la testa per salutarli e dire:
- Scusate un attimo. Mi sbrigo subito. Accomodatevi, in frigo c'è la birra, se vi va rollatevi una canna. Sul tavolo, sotto il casino, trovate quello che serve. Fate come foste a casa vostra.

Ringraziarono e senza altri formalismi, scaricarono gli strumenti e sedettero sul vecchio sofà davanti al tavolino.
Lui, sul bracciolo al suo lato, trovò delle mutandine femminili: le prese per spostarle altrove, appartenevano certamente alla ragazza che stava copulando con Mao.
Nel farlo gli venne, distrattamente, di annusarle.
Si pentì d'averlo fatto! Emanavano, infatti, un fetore pestilenziale.
Pensò, sconcertato, che quella sicuramente si teneva un topo morto fra le cosce.
Si domandò chi mai fosse la silfide sotto il loro amico, ma non gli sembrò comunque opportuno, in quel momento, d'avvicinarsi alla coppia per soddisfare questa curiosità.
Per la verità non è che la fanciulla sembrasse partecipare granché alla cosa: dal sacco a pelo giungeva solo qualche raro, debole, gemito, che a udirlo si sarebbe detto più di fastidio che di piacere.
Si disinteressò della donzella, per concentrarsi sullo spino che Alfio aveva provveduto a confezionare, dopo aver trovato, sotto la montagna di rifiuti sul tavolino la stagnola col tocco di “marocco”,

Lo accesero e in silenzio iniziarono a farlo girare tra loro.
Giulio tirò fuori la sua Ovation dalla custodia e iniziò ad accordarla e a tirar giù qualche accordo.
Alfio accennò un ritmo lento sulle tablas, mentre lui, stappata una lattina di birra del frigo, segnava col piede il ritmo contro la gamba del tavolino.
Più tardi quando il fumo avrebbe carburato a dovere, si sarebbe unito agli altri in quell'ameno concerto.
Questo perché riusciva a combinare qualcosa col flauto solo quando era fatto.

Il fumo liberava il suo potenziale di musicista, riusciva a fargli sentire il ritmo e a farlo penetrare nella melodia.
Trascorse una ventina di minuti in questi preliminari, poi, Enea strabuzzo gli occhi e gonfiò le guance come se gli fosse andata di traverso la cicca che aveva in bocca.
Lo udirono produrre un mugolio lungo e inquietante: in fine, tirò la testa all'indietro e s'irrigidì in una fissità muta, rimase con gli occhi sbarrati a osservare il soffitto come se non lo vedesse.
Pensarono gli fosse presa una sincope: ma poi convennero che invece era solo venuto.
Anche loro, per riflesso, alzarono gli occhi al soffitto a cercare cosa ci fosse d'interessante da guardare: lo fecero, con quella convinzione innaturale che ti viene solo se sei molto fatto, poiché in effetti da vedere non c'era un’emerita mazza.
Qualche attimo dopo dal sacco emerse, lentamente, una voluminosa testa di capelli crespi rosso aragosta, che si adagiò sul petto d'Enea.
Era la chioma inconfondibile di Unghia.
- Puttana Eva! - realizzò lui.
Se quella era Unghia, allora, l’altra sotto Mao era Cavalla!
Questo gli chiarì subito la ragione dell’olezzo annusato nelle mutandine di prima.

Unghia e Cavalla erano una coppia inseparabile d'amiche all'interno del loro Liceo: dove stava la prima c'era immancabilmente anche la seconda, parevano due gemelle omozigote, benché non si somigliassero fisicamente in nulla.
Unghia doveva il suo nomignolo alle lunghe e curatissime unghie che portava, l'altra, assai probabilmente, alla lunghezza delle gambe di cui madre natura l'aveva generosamente dotata, appellativo mediato dal concetto popolaresco di “cavallona”.
Entrambi, erano in sostanza, due gnocche tutt'altro che disprezzabili, ma che ostentavano un atteggiamento artefatto e appariscente.
Portavano sempre un trucco pesante, carico al limite del puttanesco; in certi periodi le vedevi girare con le chiome colorate di rosa o di blu elettrico, l'abbigliamento era costituito di minigonne microscopiche, su alti stivali “cuissard” con tacchi vertiginosi e camicette che lasciavano in vista ampie porzioni di poppe.
Erano in effetti qualcosa di simile a delle “groupie”: quelle fans sfegatate che, negli anni Sessanta, seguiva vano le rockstar durante le loro tournée, con la variante che loro, anche senza musica, presenziavano ovunque vi fossero maschi “passabili” della scuola.
Avevano il loro ufficio personale nei bagni femminili dell'istituto: le trovavi più sovente lì che nelle rispettive classi.

Passavano lì intere mattinate a fumare, rifarsi il trucco, confrontarsi sugli ultimi acquisti fatti da "Fulgenzi", o coordinarsi sulle strategie di cattura dei maschi di turno, presi di mira.
Ritenendosi in qualche modo divine, mostravano un piglio di altera sufficienza verso il resto delle donne, le quali le ricambiavano con una  cordiale antipatia, mentre molti uomini se ne tenevano a distanza per quell'aria equivoca, che procurava diffidenza se non timore.

Di Cavalla si diceva che, tanto abbondasse di profumi costosi e seduttivi, quanto trascurasse la sua igiene corporea: quelle raffinate fragranze non compensavano la carenza di sapone per doccia, deodoranti ascellari o del regolare cambio della biancheria intima.
Correva voce che chi fosse giunto a sfilargli le mutandine si sarebbe poi arrestato per l'impraticabilità della zona: l'olezzo della gnocca di Cavalla era tale da dissuadere anche i più ardimentosi e solidi di stomaco, dal proseguire nell'intento erotico.

Mao stesso, nel passato, narrava di un ammiccamento avuto con lei, risoltosi in un nulla di fatto per quel grave problema.
L'evidenza del momento, a quanto si vedeva, smentiva quel racconto o forse, il loro amico, aveva sviluppato una superiore resistenza olfattiva.
Di Unghia si diceva un gran bene riguardo all'arte di fare degli ottimi ricami orali, benché quegli artigli multicolori, di cui era dotata, potessero divenire pericolosi nei momenti clou del sesso fatto con lei.

(Continua)


Re: [Slab6] Chez Mao

Adel J. Pellitteri ha scritto: Hai deciso chi deve recitare adesso scrivi il copione. Avere buone aspettative è un nostro diritto. Ci hai abituati male, colpa tua 😉. Buon lavoro. 
Oggesù. 
Che cattive abitudini ho seminato.

Il racconto è pronto da un mese, possiede un numero di caratteri esorbitante di tre volte quelli stabiliti dal contest.
Pubblicherò la prima parte all'interno degli altri lavori e quelle restanti nella sezione "racconti a puntate".
Se ho capito bene dovrò farlo la prossima domenica.

(comunque il racconto è una ciofeca, quindi problemi vostri che siete costretti a leggerlo per regolamento)  :P (y) :facepalm:

Re: [Slab6] Chez Mao

Cari @@Monica, @bestseller2020@Poeta Zaza e @Poldo 

Grazie anzitutto per aver letto la mia sinossi, cosa che non mancherò di ricambiare a breve.
Noto che avete grandi aspettative per questo mio modesto e futuro racconto.
La cosa mi onora, gratifica e mi fa gongolare come una scimmia appesa a un albero di banane, ma non vorrei davvero deludere aspettative immeritate.
Purtroppo sarà uno dei soliti soporiferi racconti sulle malconce vicende giovanili del mio lontano passato.
Chi ha già letto qualcosa di mio in merito a quella sventurata saga, è preventivamente avvisato affinché possa salvarsi da questa nuova tediosa lettura.
 
"Praemonitus praemunitus".  ;)

Re: [Slab6] Chez Mao

Poldo ha scritto: Ciao @Nightafter, inguaribile nostalgico dei bei tempi della nostra adolescenza.
Già pregusto il clima che traspare dalla tua sinossi, figuriamoci nel racconto.
Solo una cosa non mi è chiara: il tema dei "risvegli" come pensi di inserirlo in questa storia?
Eh!... caro @Poldo , bella domanda.
Già non ho chiaro che cavolo scriverò in questa menata di storia, figuriamoci sul come inserirci il tema dei "risvegli".
Una roba è barare spudoratamente su una sinossi aleatoria e immaginaria, altro e montarci su un cacchio di racconto che abbia senso d'esistere.
In genere io butto giù un titolo che mi ispira poi comincio a ficcarci dentro quello che al momento mi passa per la mente.
Prova ne è che ho almeno una decina di racconti a puntate che attendono di essere conclusi in una maniera dignitosa.
Che dirti, se ci devo cacciare dentro 'sto risveglio. qualcosa cercherò di inventarmi.
Magari raccontando di quella volta che ho dimenticato di puntare la sveglia e mi sono destato cinque ore dopo dell'appuntamento che avevo in chiesa con la mia futura moglie per sposarci.
Vediamo che ne esce.  :facepalm: :D :arrossire:

Ciao, grazie della lettura.  (y)

[Slab6] Chez Mao

Chez Mao - Sinossi

Siamo a Torino nei primi anni ‘70.
Tre amici tra i sedici e i diciassette anni, con la passione per la musica, in un inizio pomeriggio di primavera, si danno appuntamento in un bar del centro città col proposito di recarsi a casa di un loro quarto amico, per suonare insieme.
Il protagonista (voce narrante del racconto), è compagno di classe dell’amico che li ospiterà per la loro estemporanea "jam session", anche quest’ultimo suona per hobby, dilettandosi tra chitarra, mandolino e violino.

Il protagonista (che non ha nome) e ama cimentarsi (con dubbio successo) col flauto, è amico fraterno di uno del terzetto di amici, quest'ultimo assai bravo con la chitarra.
Loro due come il quarto amico che li ospiterà, frequentano il Liceo Artistico, mentre il terzo è stato un suo ex compagno della scuola media,
aggregato al terzetto perché è un abile percussionista.

I personaggi, oltre al protagonista (innominato e scarso suonatore di flauto), si chiamano:
- Giulio (l’amico fraterno e provetto chitarrista).
- Afio (ex compagno delle medie ed eccellente percussionista).
- Mao (Maurizio Mastropietro, amico ospitante con versatili attitudini strumentali).

Nel racconto compaiono come figure di contorno:

- Pelle (fratello minore di Mao) di cui non si conosce il nome reale, ma così appellato per via degli sfoghi cutanei adolescenziali che gli tempestavano il viso e altre zone innominabili del corpo.

- Enea Bandini, compagno di classe del protagonista e di Mao: biondo perticone con origini romagnole, mediocre suonatore di basso e chitarra.

- Unghia e Cavalla: due giovani sgallettate coetanee del loro Liceo (note per i nomignoli con cui universalmente venivano chiamate e la disinvoltura con cui si passavano gran parte dei maschi presenti nell’istituto scolastico).

La vicenda ruota, con occhio disincantato e ironico, intorno alla preparazione della così detta “jam session” per cui si teneva la riunione a casa del Mao.
La storia vuole presentare uno scanzonato spaccato ambientale e di costume dei giovani di quegli anni, immersi nel mito di una nuova concezione del mondo, tra spinelli, sesso e rock and roll.

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