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Re: [LAB 4] Iron Man

Grazie mio buon @Mina  
dell'approfondito e utile commento.
Non posso che concordare con te sulle possibili aree di sviluppo sui caratteri e i pensieri dei personaggi.
Va pur detto che tutto si può fare, se si sctive un "romanzo", ma in un racconto che già supera di tre volte il numero dei caratteri imposti, bisogna pur cercare un limite alla endemica prolissità dell'autore.
Mi duole che il mio commento successivo sulla patologia che ha colpito la bella Ornella ti abbia negativamente turbato, purtroppo il mio cinico humor nero ogni tanto mi prende la mano e non riesco a mitigarne la causticità.
Perdonami per averti rovinato la mattina amico mio.
Per altro colgo l'occasione per una curiosità che da un po' mi pervade, ovvero la scelta del tuo nickname (suppongo frutto di un acronimo) che per molto tempo mi ha fatto credere che fossi una donna.
Scusa la curiosità, ma in virtù di questo equivoco credo, per un certo tempo di averti commentato salutandoti con baci e cuoricini che certamente ti avranno un po' sorpreso.
Ciao e grazie ancora.

Re: [LAB 4] Iron Man

Mia diletta @aladicorvo 

Ben vengano le tue note esortative, poiché non di soli complimenti (al contrario della donna) vive l'uomo ( Scherzo :P )

Non paga del fiume di caratteri impiegati nel racconto, cosa da far perdere la ragione al buon @Poldo , mi esorti impunemente ad aggiungerne altri per meglio dettagliare le figure interiori dei protagonisti.

Hai ragione c'era molto di più da dire sui personaggi: sul mio, a esempio (poiché si tratta di vicende autobiografiche) , aggiungerei che al contrario del buon Sino, che del carattere sardo/isolano conservava il forte senso della lealtà e dell'onore, ero già molto "continentalizzato", per tanto ritenevo che quelli più dotati culturalmente, come con supponenza  ritenevo allora di essere, avessero buon gioco in virtù della propria eloquenza della primitiva forza bruta che attraeva le donne.
Pensavo con grande ingenuità che la mente trionfasse sempre sui muscoli e la prestanza fisica, cosa che non sempre, infatti, e vera.
Pensavo anche che "à la guerre comme à la guerre ", in guerra e in amore ogni schifezza è valida.
Del Nasino e del Sino, oltre ciò che ho raccontato non saprei dire di più, li persi di vista entrambi.
Soprattutto il Silvano, dal quale mi tenni prudentemente alla larga, evitando di frequentare luoghi e strade in cui vi fosse pericolo d'incontrarlo.
Con la bella Ornella, naturalmente, feci altrettanto e questo mi ha consentito di essere ancora in vita oggi per poterne narrare.
Va detto nello specifico che molti anni dopo, almeno una quindicina, quando ormai l'avevo dimenticata, nel parlare distrattamente con una sua cara amica venni a sapere che i suoi genitori erano disperati per un suo problema psicologico, infatti l'avevano convinta ad affidarsi alle cure di uno psichiatra.
Quando chiesi allarmato di che cosa si trattasse, l'altra facendomi giurare il più assoluto silenzio, mi confidò che la ragazza fosse affetta da una incontenibile "ninfomania".
Ci restai sinceramente basito. Per giorni mi chiesi come avevo fatto a non percepire in lei il germe di quel sintomo.
E soprattutto del perché avessi avuto la mala sorte di non incontrarla almeno cinque o sei anni più tardi, quando il disagio psicologico fosse già ampiamente manifesto.
Ma si sa, la fortuna è cieca, mentre la sfiga ci vede benissimo.

Grazie del prezioso commento, alla prossima mia dolce amica di penna.  <3

Re: [LAB 4] Iron Man

@Poeta Zaza mia dolcissima amica, nonché editor prezioso e ufficiale di tutte le schifezze che produco :P
Mille grazie per le tue note, senza le quali continuerei a calpestare indegnamente e senza ritegno la lingua italiana.
Mi fa enorme piacere lo scoprire un migloramento nell'impiego delle virgole.
Alla fine la tua pervicace battaglia nel tentare d'istruirmene all'uso, qualche risultato lo sta dando :D 
Grazie infinite per la tua affettuosa pazienza.
Un bacione grande <3

Re: [LAB 4] Iron Man

Grazie carissima @@Monica 
per il gradito commento e i complimenti.
Come sovente mi accade traggo ispirazione per i miei racconti dal
mio vissuto prrsonale.
I personaggi sono tutti reali, me compreso che non ci faccio una figura di cui andare fieri.
Pertanto ho mantenuto i loro nomi: Nasino veniva universalmente chiamato così, al punto che non ho mai conosciuto il reale nome che avesse.
La dolce Ornella a esempio (il buongiorno si vede dal mattino) ebbe poi un proseguo di carriera di notevole interesse.  :D Ma, questa è un'altra storia che forse mi verrà di raccontare.
Grszie ancora e un abbraccio. <3

[LAB 4] Iron Man cap 1

Iron Man


Si chiamava Silvano, per tutti era Sino, io lo avevo soprannominato “Iron Man” (l’uomo d’acciaio).
Come uno dei personaggi dei fumetti Marvel ideati da Stan Lee negli anni ‘60, per le sue peculiarità fisiche.
Ma di quel nomignolo non avevo mai detto a lui né a nessun altro, per timore che glielo riferissero e la cosa non era consigliabile: poiché non non aveva un gran senso dell’humor e difficilmente l’avrebbe gradita.
Sino non leggeva fumetti, dubitavo che ne avesse mai aperto uno in vita sua, non aveva tempo da perdere e cose più serie di cui occuparsi.
Era d’animo buono e generoso, di quel senso della lealtà e dell’onore che una volta albergava negli uomini giusti.
Ma di carattere era assai suscettibile: se lo irritavi era meglio che ti eclissassi dal quartiere o ancor meglio dalla città.
Perché farlo arrabbiare era la cosa più sbagliata che potevi compiere nella tua giovane vita.

In quel tempo avevo quattordici anni ed ero poco più che un bambino, lui ne aveva diciassette e bambino, forse, non lo era mai stato.
Non era molto alto, sul metro e cinquantacinque: come me proveniva dalla Sardegna, entrambi avevamo alle spalle una famiglia che aveva abbandonato la terra d’origine per trovare lavoro nel ricco nord del paese.
Silvano riassumeva su di sé le note morfologiche dello stereotipo corrente più diffuso sul maschio sardo: basso di statura, nero di capelli, scuro di carnagione, asciutto e tonico nel corpo, di carattere ombroso e stringato di parole, testa dura come bronzo, ma non solo in senso lato.
Bisognava stargli lontani quando imbestialito decideva, nella più classica tradizione isolana, d’impiegare come arma impropria quella testa, piccola ma tosta come granito: dei nasi sanguinanti e i denti rotti, lasciati sulla sua strada si perdeva il conto.

Sino lavorava dall’età di quattordici anni, contribuiva in modo sostanziale al mantenimento della sua famiglia, composta dai genitori e quattro fratelli più piccoli, inclusa una nonna ottantenne a carico.
Possedeva un livello d’istruzione assai basico, fermo alla seconda media, che aveva abbandonato per cercarsi un lavoro.
Da subito lo aveva trovato, in nero, come manovale nell’edilizia o a scaricare cassette d’ortaggi e frutta ai mercati generali.
Mestieri che richiedevano grande energia e forza fisica, cosa di cui era straordinariamente dotato.
Dopo diversi impieghi precari, aveva trovato lavoro fisso, come posatore delle linee tranviarie, presso la società di trasporti torinesi.
Viveva in una delle fatiscenti palazzine popolari, con lunghe balconate a ringhiera della via San Secondo, nel tratto prossimo alla piazzetta di mercato del quartiere.
Ci fu un periodo di quasi un mese nel quale, come manovale del cantiere di rifacimento della linea tranviaria della via, lo si poteva vedere alacremente all’opera.
Con un paio di jeans lisi e stinti, a torso nudo, nella calura di quella stagione estiva, si prodigava in maniera instancabile per tutte le otto ore del lavoro.
Aveva qualcosa di epico col corpo brunito dal sole, le fasce muscolari guizzati e in grande evidenza sotto la pelle lucida di sudore; pareva uno di quegli attori dei film storici su Maciste in voga negli anni sessanta.
Avanzava portando su ogni spalla una traversina in massello di rovere del peso complessivo di novanta chili: quelle che si posano regolarmente distanziate e su cui vengono imbullonate le rotaie, con una facilità di due fuscelli.

La sera dopo cena lo si vedeva sempre al baruccio sull’angolo tra la via San Secondo e la via Legnano: il cosi detto “bar di Anna”, per via del nome della bella e giovane figlia del proprietario dell’esercizio.
Quella ragazza allora diciottenne era una piccola stella luminosa in quell’angolo di via di un quartiere operaio, fatto di vecchi palazzi ingrigiti dal tempo con angusti cortili ombrosi che sapevano di orina di gatto, nei quali i bambini giocavano a “campana” o ai “Quattro cantoni”.
Il fascino di quella incantevole brunetta era un richiamo irresistibile per tutti i maschi del quartiere in età post-puberale, che con la loro presenza colmavano le due salette del locale, consumando smisurate quantità di bevande, panini e quant’altro.
L’unico che non fosse lì per il fascino della giovane barista era Sino, il quale aveva occhi solo per tale Ornella Tenerelli, al quale era legato sentimentalmente da diverso tempo.

Questa Ornella era una biondina mia coetanea d’età, un corpicino esile e ben fatto, una grazia del portamento e dei modi che la elevavano sopra la mediocrità delle ragazzine che popolavano il rione.
Dal visino triangolare, valorizzato da un corto caschetto alla “Caterina Caselli”, si espandeva la luce di due occhi azzurro cielo, tanto luminosi da ricordare lo scintillio del diamante: uno sguardo che, nell’incrociarlo, ti abbagliava, scalzando ogni ombra dal più profondo recesso della tua anima.
La bella Ornella era figlia di una coppia che possedeva un banco di calzature al mercato che ogni giorno si teneva tra la via Legnano, nella quale abitavo con i miei e l’adiacente piazzetta San Secondo.
Anche a me Ornella piaceva una cifra: la vedevo presente al banco dei genitori ad assecondarli nella vendita durante le vacanze scolastiche o nelle giornate di sabato, in cui il mercato era attivo fino a tardo pomeriggio.
Ci conoscevamo in maniera epidermica, come si conoscevano più o meno di vista tutti i giovani del quartiere, ma non perdevo occasione di visitare il suo banco pur di poterla avvicinare.
Oltre alle calzature il banco offriva anche qualche articolo accessorio inerente al prodotto principale, ovvero: lacci per scarpa, calzascarpe, lucidi da scarpa, solette plantari anti odore e spazzole in crine.
Spendevo ormai quasi l’intera esigua paghetta settimanale per acquistare qualcosa al suo banco.
Al punto che mia madre iniziava a preoccuparsi che non avessi sviluppato una qualche parafilia riguardante il feticismo del piede.

Data quell’assiduità in veste di cliente, il nostro rapporto divenne più confidenziale.
Ma con mio grande sconforto, nelle nostre saltuarie chiacchierate, risultava chiaramente che l’unico ragazzo che le interessasse fosse l’energico e "roccino" ragazzo sardo.
Lui era divenuto una specie di eroe per i ragazzini più giovani, che ogni tanto facevano capannello intorno a lui e gli chiedevano di mostrargli la sua forza proverbiale.
Lui si conceda divertito e li dilettava con cose tipo piegare a “U”, con le mani, un tondino di ferro del diametro di quasi due centimetri, quelli usati per armare il cemento; oppure faceva la “bandiera umana”, reggendosi con le braccia stese a un palo segnaletico sull’angolo della via e portando il corpo a squadra con l’asta del palo stesso.
Aveva mani grosse e callose come pale di un Caterpillar e braccia scolpite di nervature, con bicipiti da gorilla.
Quelli meno informati e più ardimentosi del bar osavano misurarsi con lui a “braccio di ferro”, in quelle occasioni rischiavano di farsi spezzare l’arto, mentre lui, distrattamente, con la mano libera sorseggiava una tazzina di caffè.

Ma l’apice della sua fama lo raggiunse una sera proprio al bar di Anna.
Il bar, essendo l’unico luogo un po’ vitale del rione dopo le otto di sera, oltre che da giovani era frequentato anche da adulti d’ogni età: operai e pensionati che trascorrevano la serata con un bicchiere di vino o birra, calandosi in lunghe partite a briscola o scopone.
Fra i clienti, non di rado, comparivano anche piccoli esponenti della malavita del quartiere: i quali benché noti per le loro illecite attività, facendosi i fatti propri e senza dare fastidio alcuno, si mescolavano agli altri avventori.
Ma vi era tra loro un soggetto particolarmente losco e malvisto da tutti per via del mestiere che praticava: era protettore di prostitute.
Nel gergo sabaudo era chiamato “garga”: diminutivo del termine “gargagnano” che indicava appunto l’attività di pappone.

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