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Re: Il fabbro del Castello della Ripa

Poldo ha scritto:
Qui si apre una questione di lana caprina. La domanda è plausibile, ma fa subito pensare a uno stratagemma un po' troppo abusato per dare al narratore la possibilità di entrare in argomento. Dal mio punto di vista sarebbe meglio evitare un approccio così scontato, e poi, a pensarci bene questi due sono in viaggio perché sperano di trovare "qualcuno al mercato". A quei tempi non si poteva essere certi di nulla, ma se avevano affrontato quel viaggio dovevano essere ben consapevoli del rischio che correvano.
Un'altra riflessione riguardo all'uso di "Domine". Il racconto e i dialoghi sono in italiano. Posso presumere che a quel tempo la lingua non fosse come la nostra e che vi fossero in uso ancora molti termini latini, ma qui, a mio avviso si tratta di fare una scelta precisa. O mi butto in una ricerca linguistica per sapere come veramente parlavano a quel tempo (solo Umberto Eco ne sarebbe capace), o scelgo di tradurre il tutto in un linguaggio corrente usando ad esempio "Mio signore".
"Mercato" è un luogo, il nome di un minuscolo borgo, oggi "Mercato Vecchio", dove Giovanni trasferì la bottega. E Giovanni la trasferì veramente, perché si tratta di un personaggio storico, cioè "documentato".

A proposito di documenti, la lingua  "parlata",  tratta dalle rare citazioni di testimonianze in processi, è un volgare arcaico, dove alcuni termini, come "Domine"[font="Open Sans", "Segoe UI", Tahoma, sans-serif] (o Signore) è il modo con cui ci si rivolge al "domino", che oggi è diventato il "don" davanti al nome del sacerdote. Il domino Pellegrino oggi è don Pellegrino.[/font]


Poldo: ha scritto: Poldo:

Se tutta la frase è in latino ci può stare ( a parte che in latino "fabbro" mi risulta essere "faber" ), ma il miscuglio mi risulta cacofonico, specie se è ripetuto così tante volte. Lo stesso vale per "Fili mi"
La pace sia con te, o fabbro (vocativo di faber).


Quando è nervoso o arrabbiato, il sacerdote si lascia andare in latino. 


Poldo ha scritto:
Scusa ma questo te lo devo segnare con la penna rossa. O_o
Caron dimonio dagli occhi di bragia lasciamolo a Dante. L'espressione è troppo connotata per poterla usare altrove.

Vuole proprio essere un richiamo, una citazione. Bragia è italiano di oggi, purissimo perché derivato dal toscano, ed è anche una parola rimasta invariata dal tredicesimo secolo. Secolo nel quale è ambientato il romanzo.
Poldo ha scritto: E veniamo al finale che, a quanto pare finale non è. Scopro solo a questo punto che il racconto non è autoconclusivo, ma sembra il preludio di una storia che deve ancora svolgersi; e forse mi viene il dubbio che sia addirittura un pezzo tratto a metà di una storia più articolata.
Hai ragione. Si tratta di un brano tratto dal romanzo che sto scrivendo, ed è carente nella caratterizzazione proprio perché estrapolato. E mi scuso, ma penso sarebbe opportuno dedicare una sezione a questa tipologia di "racconti". 
Ti ringrazio per i tuoi consigli.

Re: Il fabbro del Castello della Ripa

@Marcello, il killer delle virgole!
Marcello ha scritto: Fraudolente  una buona cena - chissà che aveva cucinato Magdalena? –
Nell'inciso hai usato prima il trattino breve e poi quello lungo: quello giusto è il secondo – (Alt+0150)
Qui è quasi impossibile il copia e incolla. E poi ero convinto quello corretto fosse il primo. Fortuna che ci farò mettere mano da un bravo editor...
Marcello ha scritto: Buon lavoro.
Un parolone. Nella realtà per me è un divertimento e magari diventasse un lavoro. Ho appena cancellato la virgola dopo un divertimento.

Grazie, magister!
(Il vocativo esige la virgola)

Il fabbro del Castello della Ripa

Il mio commento è qui: viewtopic.php?f=8&t=4842&start=25
Spero di avere fatto tutto bene...

Castello della Ripa, ottobre 1261

Il tempo era cambiato: piovigginava e, nella foschia densa che aveva coperto l’orizzonte, si intravvedeva il dito maledetto di Petra Fagnana, che sfumava nel grigiore incostante come la torre di un castello diroccato. Barduccio detestava la superstizione dei villici, che tramandavano leggende sulle disgrazie che avrebbero colpito i viandanti che non si fossero fatti un segno della croce passando accanto al macigno. Fandonie, solo fandonie! Qualche pastore gli aveva confidato in confessione che il segno della croce non bastava, e che bisognava anche toccarsi i genitali. E quella era blasfemia.
Chiuso nel tabarro invernale, preferì evitare di percorrere a dorso di mulo il primo tratto di strada, dove, sulla discesa di breccia, ripida e scivolosa, sarebbe bastato un nonnulla per cadere.
Affidata la bestia a Bonaccorso, che resse le briglie del mulo con una mano e quelle del cavallo con l’altra, si avviò.
«Figlio mio, cerchiamo di sbrigarci, ché voglio rientrare prima del vespro.»
Cercò di camminare velocemente ma, dopo pochi passi, le ginocchia iniziarono a fargli male, e dovette rallentare. Usciti dalla selva dei carpini, raggiunsero un pascolo in dolce pendenza, e montarono in sella.
Bonaccorso lo affiancò: «Domine, siete sicuro che lo troveremo giù al Mercato
«Lo spero proprio, figliolo. So per certo che aveva preso accordi con il conte per trasferirvi la bottega. D'altronde, il nostro vecchio castello è in rovina, e quello nuovo di Monteboaggine è troppo distante. Da quando Giovanni è diventato il suo fabbro, il conte vuole tenerselo vicino.»
Giunti in vista del villaggio, il clangore li guidò alla nuova bottega. Era simile alla vecchia, ma la fucina era più grande, e la casa, di pietra rossa e su due piani, aveva il tetto in sottili lastre grigie.
Davanti alla fucina, Giovanni martellava in una pioggia di faville la lama rovente dell’ennesima spada per i soldati del conte. Non si accorse di loro.
Il mulo di Barduccio non gradì il chiasso e ragliò.
Il fabbro rimase con il martello al cielo.
«Pax tecum, fabro » salutò Barduccio.
«Domine, vi stavo aspettando» rispose Giovanni.
Con disappunto, il presbitero notò che il tono era deciso, e non deferente come al solito. Cercò di essere accomodante, ma iniziò a dubitare che sarebbe riuscito a riportarlo alla sua famiglia.
«Maria e i bambini», evitò con cura di definirli i tuoi figli, «hanno trascorso la notte da Magdalena. Non è sicuro per loro rimanere da soli fuori dal castello dopo l’ora di buio.»
«Non mi riguarda, domine, dove quella donna abbia dormito, e neppure con chi. Forse sareste dovuto salire alla Cella del Monte, a chiedere di Rufo, ché ci pensasse lui ai figli di Maria.»
«Fili mi, quella donna è senza peccato, e il mondo è pieno di fanciulli dai capelli rossi.»
«Hanno il marchio di Caino, come Rufo! Ho guardato gli occhi di mia moglie, e so che i gemelli non sono figli miei.»
«Fili mi, ti posso garantire…»
«Nulla potete garantirmi, domine. La ripudio, e che il Signore abbia pietà di lei e dei suoi peccati. Se avete portato il castellano per convincermi ad adempiere ai doveri di marito, sappiate che sono pronto ad accusarla di adulterio. E voi sapete meglio di me che i bambini sono i bastardi del converso, che possa crepare tra mille dolori e finire all’inferno!»
Mollò il martello e la lama che stava forgiando, che caddero sul pavimento con un tonfo. Sfilò la parannanza  di cuoio e rimase a torso nudo, con le brache e le scarpe bruciacchiate. L’impugnatura di un’arma spuntava da un fodero di pelle appeso alla cintura. La estrasse. Era un trafiere sottile, che agitò all’aria simulando un affondo con il braccio possente.
Il viso distorto in una smorfia, gli occhi di bragia, il piglio feroce del dio Vulcano, intimorirono Barduccio: «Figlio mio…» sospirò.
Quanto avrebbe voluto raccontargli che Maria era senza colpa! E se avesse violato il Sigillo della Confessione rivelando che Rufo l’aveva presa con la forza? No, non poteva farlo, almeno non senza il permesso della peccatrice.
Giovanni rinfoderò il trafiere, recuperò la parannanza e il martello e, con una pinza di ferro, immerse la spada nel fuoco.
Non c’era più nulla da dire.

Dopo un viaggio silenzioso, giunsero al Castello della Ripa che mancava ancora parecchio all’ora di buio. La guardia li salutò portando la mano alla fronte. Smontarono davanti alla canonica. La nebbia era calata, ammantando il paese come un velo di latte annacquato.
La schiena e le natiche dolenti, Barduccio era provato dal viaggio, e aveva appetito. Era grato al castellano per avere evitato chiacchiere e commenti. 
«Penso io al mulo, domine» disse Bonaccorso, e si avviò alla stalla.
«Grazie, figlio mio. Ci vediamo alla Messa del Vespro.»
Il castellano si volse: «È un piacere servirvi, domine, e aiutare quella povera donna.»
A Barduccio parve che il castellano fosse arrossito, ma la stanchezza, la nebbia e l’ombra incombente della sera potevano averlo ingannato.
Lo aspettavano una breve Messa, una buona cena - chissà che aveva cucinato Magdalena? – e una lunga dormita.
E alla moglie del fabbro ci avrebbe pensato il giorno dopo.

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